CONCORSO – Un albergo di montagna, lontano da civiltà e dalle passioni di tutti i giorni, dovrebbe fornire lo spazio mentale e fisico ideale per il ritorno totale alla civiltà, appunto, di alcuni veterani delle guerre balcaniche. Ma la normale psicologia può non bastare a contrastare odi atavici.

Quando leggiamo nelle sinossi dei film che la vicenda è ambientata in uno dei paesi dell’ex-Jugoslavia e che vi si parla di guerre balcaniche o delle loro dolorose appendici, confessiamo che il timore degli stereotipi e delle semplificazioni ci assale con una certa, ricorrente, intensità… Alen Drljevic però, già assistente di Jasmila Zbanic e qui al suo primo lungo di finzione, riesce ad evitare i cul de sac del “genere”, pur immergendosi fino al gomito nelle sofferenze umane post-belliche e nei contrastati grumi di ripicche e vendette che fra serbi, croati, bosniaci musulmani (e solo in parte altri popoli balcanici) continuano a covare sotto la superficie di una calma apparente.

Il regista di Sarajevo si era fatto notare già nel 2006 con Karneval, documentario dedicato ai profughi bosniaci e Premio del pubblico al Trieste Film Festival, in cui venivano avvicinati ed intervistati alcuni dei protagonisti dei dolorosi eventi, ma forse il trucco per evitare di riproporre luoghi comuni e rivangare senza costrutto tragedie lontane ormai due decenni sta nel trovare la “giusta distanza”: Drljevic ci prova spostando appunto fisicamente i concentrati di rancori e rimorsi sedimentati in un gruppo di ex-combattenti, che con i rispettivi battaglioni si erano probabilmente sparati addosso anni addietro, e che ora in un hotel disperso fra le montagne dovranno cercare di sparare addosso a se stessi dubbi e interrogativi mai risolti, di modo da provare a perdonarsi delitti e colpe (piccole o enormi che esse siano) e così recuperare una dimensione umana più completa e consapevole.

I punti di forza del film sono ben distribuiti: stanno infatti sia nella sua costruzione e concreta realizzazione, che nell’assunto ideale di partenza. Non sappiamo quanto successo abbia avuto nella realtà post-bellica jugoslava tale approccio psicanalitico, ma l’immaginare una seduta liberatoria di confessioni di gruppo (qualcosa a metà fra Qualcuno volò sul nido del cuculo e gli alcolisti anonimi, per intenderci…) fa di per sé immaginare una bomba ad orologeria pronta ad esplodere ad ogni falso ticchettio emotivo e all’apparire delle più insignificanti schegge malrimosse negli animi di questi ex-combattenti. Drljevic si appoggia ad un cast strepitoso (lo sloveno Sebastian Cavazza, il croato Leon Lucev di Grbavica, il bosniaco Izudin Bajrovic di Death in Sarajevo fra gli altri) per tracciare una movimentata linea drammatica che non scade in eccessivi balcanismi manieristici, né in giudizi manichei o, al contrario, superficialmente buonisti.

L’odio fra le etnie e le religioni c’è tutto, è innegabile e palpabile almeno nella sua pericolosa potenzialità: vent’anni di distanza sono troppo pochi per poter perdonare e dimenticare quanto si è visto o fatto, ma seguendo il principio che dichiarare apertamente una crisi, è il primo e unico passo possibile per affrontarla, il regista sarajevese prende di petto gli innegabili contrasti ancora serpeggianti fra le popolazioni ex-titine e imbastisce un dramma di parola che non perde quasi mai colpi dal punto di vista drammatico e drammaturgico e ha un finale aperto e possibilista che non nasconde la tragicità del presente, senza per questo mettere una semplicistica pietra sopra al passato o negare pessimisticamente ogni possibile evoluzione positiva.

Questo di Drljevic insomma è un esordio muscolare, uno sguardo interno fra i più interessanti e originali al tema trattato, e una promessa di autorialità da seguire anche in futuro.