Jia Zhangke, dopo aver ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes nel 2013 con Il tocco del peccato, ritorna in Francia due anni dopo per presentare Mountains may depart, proseguendo sulle orme del film precedente e allontanandosi sempre più dal prototipo ibrido tra fiction e documentario che ha contraddistinto finora la sua produzione.
Il film, come è già accaduto spesso nella carriera di Zhangke, si articola in segmenti distinti. In questo caso la ripartizione è triplice e nel complesso copre un quarto di secolo a partire dall’inizio del terzo millennio. Nel 1999, a Fenyang, Tao è divisa dall’amore per due uomini, Jinsheng, proprietario di una miniera dalle grandi aspirazioni capitalistiche, e Liangzi, umile lavoratore della miniera di cui sopra. Tao si dichiarerà al primo e insieme a questi avrà un figlio che (particolare molto esplicativo) avrà il nome di Dollar. Quindici anni dopo, Tao e Jinsheng sono separati, il figlio è stato affidato al padre, il quale ha intenzione di farlo crescere in Australia, mentre Liangzi ha un cancro ai polmoni. Nel 2025 invece, Dollar, che non comunica ormai più con il padre, vuole rivedere sua madre.
La particolarità del cinema di Jia Zhangke (che questo film incarna pienamente) è la continua evoluzione. L’autore cinese è partito dal cinema d’ispirazione neorealista che ricorda il primo Tsai Ming-Liang con Xiao Wu, ha poi proseguito con il documentario (In public, Dong, Useless); successivamente ha sperimentato diverse forme ibride, dal film di fiction ma girato in stile documentaristico (24 City) al cinema di stampo contemplativo nello stile di Hou Hsiao-Hsien, con i capolavori The world e Still life, mentre Il tocco del peccato ha molto del cinema d’azione di Hong Kong quando la regione era ancora sotto il controllo britannico (quello di Tsui Hark o Andy Lau, per intenderci). In quest’opera appunto si può trovare una perfetta sintesi dell’evoluzione di Zhangke, perché il film si evolve attraverso il mezzo, esattamente come il regista stesso, cambiando, ha cambiato il suo cinema. Una sorta di operazione analoga a quella fatta da Bruno Dumont con P’tit Quinquin. Ciò suggerisce anche una maggiore vicinanza dell’autore all’opera, ricordata per esempio dagli elementi autobiografici all’interno e all’esterno della narrazione, come la protagonista interpretata dalla moglie del regista (il cui nome poi coincide con quello del personaggio) e la vicenda ambientata nella città natale del regista. L’evoluzione di cui si parlava si attua in primis attraverso il cambio di formato da un segmento all’altro, seguendo la lezione dolaniana di Mommy. La prima parte è girata in 4:3, e rappresenta una sorta di prologo, tanto da risultare quasi un segmento a sé stante. Inoltre questa prima parte ha dei titoli di coda propri e il titolo del film appare solo dopo la fine di questi.
La seconda parte invece è in 1.85:1 mentre l’ultima, ambientata di nuovo in una Fenyang non troppo avveniristica, è in Scope. Questo progressivo allargamento del formato simboleggia l’apertura della Cina al mondo negli ultimi anni, e Zhangke si interroga sul futuro della sua nazione attraverso la messa in scena di un melodramma che si fa metonimia della questione, trasferendo l’incertezza circa il futuro di un paese e della sua cultura in un ambito circoscritto da un dramma prima amoroso e poi familiare, non troppo diversamente da ciò che un paio d’anni prima aveva fatto Zhang Yimou con Lettere di uno sconosciuto. D’altro canto con la successione dei singoli episodi si nota come, più si prosegue con la visione, più Zhangke ripercorre le tappe della sua carriera di regista. Ciascun episodio è girato in maniera differente, e il filo rosso di questa crescita coincide con la mobilità della mdp, tanto fissa e frontale nel primo episodio quanto fluida ed eterea nel terzo.
Questo crescendo in termini di possibilità di movimento richiama le fondamenta dell’eponima montagna che è sempre più pronta a spostarsi. Il titolo richiama una massima proverbiale cinese, ma il regista riferisce la montagna all’intera Cina. Una montagna che normalmente non potrebbe spostarsi, ma che il progresso sta lentamente smuovendo, sradicando. Infatti Zhangke ha una visione pessimista del progresso moderno, per via delle enormi perdite in termini di cultura, appartenenza, radici, nonché per via dello spaesamento prodotto sul singolo, in questo caso Dollar, che non solo non è in grado di comunicare con il padre, ma ne è materialmente impossibilitato: mentre infatti la nuova generazione parla la lingua della globalizzazione, quella precedente soffre delle vestigia di un mondo che ha voluto abbandonare.
Dollar (essendosi trasferito in Australia in giovanissima età) ha dimenticato il cinese, mentre il padre non ha mai veramente imparato a parlare inglese. Quindi mentre il passato si sgretola lentamente, la Cina moderna smarrisce la sua identità, e con essa si smarrisce anche il valore delle emozioni (valore incalcolabile che, di nuovo, viene misurato con la valuta universale, il dollaro), rinunciando così all’intrinseca caratteristica di autenticità delle esperienze e dell’individualità. Ciò risulta paradossale, poiché la corruzione non materiale ma ugualmente concreta con cui il capitalismo sta contaminando la Cina si basa sulla supremazia dell’individuo (si prenda ad esempio Jinsheng), mentre Zhangke qui critica la sua predisposizione al soffocamento dello spirito del singolo. Tant’è che la circolarità del film (che si apre e si chiude con Go west dei Pet Shop Boys) ricorda che, esattamente come nel 1999, anche adesso la Cina si sta spostando verso ovest, anche se non è troppo tardi per fermarsi: quel “may” tra “mountains” e “depart” è l’unico ma ben visibile faro ottimista del regista in un mare di diffidenza per il progresso in quanto tale, diffidenza in grado ormai di trascendere la situazione sociale contingente per abbracciare il mondo intero, e che prende atto con questo film che il progresso è stato accettato inconsapevolmente come un rinculo della modernità, dello stare al passo con i tempi, diventando così non lo scopo, ma il contraccolpo inevitabile da attutire per una vana ricerca di miglioramento costante.
In conclusione, Mountains may depart, pur non essendo sicuramente né il più bello né il più originale tra i film di Jia Zhangke, è sicuramente quello più importante, per come si pone nei confronti del pubblico, sperando di andare oltre l’applauso che si può raccogliere nella sala di un festival e auspicandosi platealmente di arrivare il più distante possibile. L’eccesso di didascalismo (perché la volontà di comunicare è a volte eccessivamente tangibile) potrebbe infastidire, generando l’impressione di un regista-maestrino, ma il punto è che qui l’autore cerca in tutti i modi di comunicare con lo spettatore, e lo fa infilando l’una dietro l’altra invenzioni sorprendenti, a livello narrativo, registico e anche giocando con i simboli e con la tecnica comunicativa standard. Ciò succede per esempio quando egli ribalta la funzione del piano d’ambientazione, non solo rispetto al suo uso classico (cosa che è comunque una sorta di sua costante registica) ma anche rispetto al suo consueto modo di girare: dopo una scena sulla quale lo spettatore ha pochi elementi orientativi e che quindi è stato costretto a contestualizzare autonomamente nel tempo e nello spazio, Zhangke piazza un piano d’ambientazione che costringe quel suo stesso spettatore a riscrivere ciò che ha appena visto; dopo di che ce ne viene presentato subito un altro ancora, che questa volta è usato tradizionalmente (ovvero prima della scena che esso deve introdurre) ma che essendo seguito da un ennesimo simile piano d’ambientazione costringe chi guarda a mettere in contrapposizione la scena che ha appena visto con quella che seguirà.
Il regista ha infatti messo subito in chiaro con quel titolo che appare dopo 45 minuti quali sono le sue intenzioni, e lo conferma immaginando un contesto sociale situato nel 2025, senza velleità fantascientifiche ma con l’assoluta ambizione di prevedere il futuro con realismo. Un grande obiettivo, dinanzi al quale non si può non sorridere. Anche perché, grazie al continuo gioco di rimandi e al lavoro di montaggio che sacrifica sull’altare della spontaneità il solito virtuosismo registico di piani-sequenza molto elaborati del regista cinese, riesce a dare significato a ogni singolo stacco, come se interrompesse sempre un cammino di speranza a metà del percorso. Nel complesso quindi Mountains may depart è sì, in modo bizzarro, il film più accessibile di Jia Zhangke, ma anche quello che richiede di più allo spettatore. Ma quel che esso richiede, lo domanda in maniera talmente delicata e trasparente che non è possibile rifiutarglielo.
ALVISE MAINARDI