C’è chi l’ha definito un esperimento mal riuscito, chi l’ha chiamato il Blade Runner del nuovo millennio e chi l’ha eletto a miglior titolo tra tutti i Netflix originals apparsi sulla piattaforma negli ultimi anni. Resta il fatto che Mute, ultima fatica del regista britannico Duncan Jones, ha fatto parlare di sé. Disponibile sulla piattaforma dal 23 febbraio scorso, Mute è un thriller ambientato in un fosforescente e utopico scenario fantascientifico, rientrando così nel genere preferito di Jones, nel 2009 alla regia di quel Moon che l’ha portato alla fama internazionale.

Ambientato nello stesso universo di Moon (Jones l’ha definito come una sorta di “sequel virtuale” del film del 2009) ma questa volta sul pianeta terra, specificamente in una futuristica e iper-cosmopolitica Germania, Mute segue il barista Leo (Alexander Skarsgård), muto dall’infanzia a seguito di un terribile incidente, nella disperata ricerca della ragazza che ama, la misteriosa Naadirah.Nel farlo, dovrà scontrarsi con i criminali grandi e piccoli che controllano e fanno andare avanti la Berlino sopra le righe e frenetica del futuro, dal potentissimo gangster Maksim (Gilbert Owuor) ai loschi Duck e Cactus Bill (rispettivamente un biondissimo Justin Theroux e un inedito Paul Rudd dai folti baffoni a manubrio), due chirurghi americani che gestiscono una clinica clandestina.

I più accaniti binge watchers e i più fedeli fan di Netflix si ricorderanno ancora molto bene di un altro titolo recentemente apparso sulla piattaforma, vale a dire il già popolarissimo Bright, una crime story a sfondo razziale, un po’ alla Spike Lee, inserita però in un originale universo fantasy, tra orchi, fate e bacchette magiche. L’abbiamo voluto ricordare perché, seppur con le dovute differenze, è proprio in questa direzione che sembra andare Mute: inserire la storia di un inseguimento senza tregua tra crimine e corruzione in un’ambientazione fantastica, in questo caso fantascientifica.

Le luci al neon di questa Berlino di metà XXI secolo (che rimandano quasi più all’estetica sopra le righe di Atto di Forza che alle più cupe ambientazioni di Blade Runner) diventano quindi un modo originale per raccontare una storia semplice e romantica nella sua essenzialità, appunto quella di un uomo alla disperata ricerca della sua donna, una donna che forse non aveva mai conosciuto a sufficienza.Esattamente come aveva fatto in Moon, Jones parte da una storia appunto romantica, sentimentalmente drammatica, per inserirla in un contesto che ha sì gli elementi del genere fantascientifico ma senza che questi prendano il sopravvento sull’aspetto più umano (in tutti i sensi) del racconto. Sempre a proposito di Moon, se nel film del 2009 Jones aveva dato una voce (quella di Kevin Spacey) a un non-umano, il computer di bordo GERTY, questa volta decide di toglierla a un uomo che muore dalla voglia di urlare dal dolore.

Come si diceva prima, Mute deve molto all’estetica delle grandi distopie fantascientifiche alla Blade Runner. A prevalere tuttavia non sono i riferimenti ai classici temi propri del genere, come il rapporto tra uomo e macchina (comunque presenti anche se in dosi assai minori rispetto a Moon), bensì tutti quegli elementi scorretti e sopra le righe, tra bordelli e night club che sembrano usciti un po’ dal 1975 e un po’ dal 2055.Ai film crime degli anni ’70 sembra strizzare l’occhio anche uno degli attori migliori del film, ovvero un gretto e spietato Paul Rudd che (un po’ alla Matthew McConaughey) si toglie i panni del marito ideale per indossare quelli di un personaggio complesso e ben scritto che sembra uscito da un poliziottesco anni ’70.

Se l’intenzione di Duncan Jones era quella di produrre un lungometraggio che possa competere qualitativamente con il suo capolavoro di quasi dieci anni fa, l’obiettivo si può dire più che centrato, dato che Mute si presenta come un film avvincente e coinvolgente che gioca bene con i diversi generi da cui pesca vari elementi (e non parliamo solo di fantascienza) senza essere un collage disorganico.