“Mute voci mute” di Rodolfo Di Biasio

Il poeta pone la sua infanzia travagliata dalla guerra quale simbolo di purificazione sociale

“A peste, fame et bello libera nos Domine…” il salmo citato in prima pagina dal poeta Di Biasio, salmo da brivido, di febbrile paura sulla bocca dei fedeli negli anni ‘43,44,45 rimane una supplica tra il tremore e una fede purificata farfugliata o sotto le volte di una chiesa o nell’oscurità dei ricoveri antiaerei.

Si aveva fede, si aveva paura, si aveva fame in quel turbolento periodo.

Un poeta – Rodolfo Di Biasio – fanciullo dai capelli bianchi, trasfigura la sua fanciullezza in un agile,meditato,dolorante fioritura di versi fotografandosi come un bimbo velato di malinconia,rubato dei giochi e delle voci più tenere con la sola compagnia del buio in una stalla ricovero.

I versi scorrono tra scene raccapriccianti di cadaveri portati nella fossa a dorso di mulo, di un sole che mai appartenne alle guance fredde di lui fanciullo.

Ora, dopo sedici lustri, il cielo e la terra degli uomini non ospitano che un fiume lastricato di morti, non c’è l’ascolto del monito delle vittime innocenti, c’è solamente il riaffiorare di una sterile pietà che non si fece misericordia.

Non si spegne nella sua memoria la sacra luce negli occhi materni, trafitti dalla pena per i figli affamati.

In queste brevi pagine il tedesco invasore non sparge strazianti rovine ma solo dona un pezzo di pane nero al lui fanciullo, pane dal sapore della pietà.

Il bimbo assurge lungo l’avvincente percorso poetico a simbolo eterno della sordità umana che non trae purificazione dai percorsi tragici in cui l’innocenza fu torturata e profanata. Eppure il poeta giura al bimbo che “non possiamo/sceglierci sentieri privati/innalzare steccati….” altrimenti ci sentiremmo perfidi ladri che “rubiamo il pane al bimbo”.

Il poeta poi apre uno squarcio di serenità ricordando il mondo abitativo del suo tempo.

“I tetti di una volta../quelli rossi../ quando la pioggia vi batteva/ e le rondini sbirciavano dal nido/la nenia delle gocce alla grondaia.” Oppure “quando era dolce d’estate/bere con le mani dal fiume” o “staccare la mela dal ramo”assaggiata dal passero” e pronta per il morso del bambino.

Ora il cemento sommerge la visione riposante e armoniosa della fuga dei tetti rosati, ora i rigagnoli “sono polverosi” /non fanno più acqua sonora”, non esiste più l’occhio che “sapeva guardare/le cose del mondo” per proteggerle e conservarle quali tenere creature dal respiro fragile, altrimenti – qui il poeta richiama la saggezza profetica dei nostri vecchi – “la notte sarebbe venuta”.

Il finale dell’ampia. seducente lirica si nobilita di una voce alta, colma di luce e di trepidante speranza: “Ci tornino fraterne/le creature del cielo e del mare/della terra”, le nostre labbra ritornino ad assaporare la loro freschezza smarrita.

“MUTE VOCI MUTE” (Ed.Ghenomena – 2017)