I documentari sul mondo del cinema e non solo sono da tempo ormai una presenza fissa al di fuori del concorso lagunare, e David Batty, assieme a Michael Caine, presenta alla 74°esima Mostra del Cinema di Venezia un documentariuo che attraverso il noto attore britannico ripercorre più di cinquant’anni di storia inglese e americana.

Dopo sei anni di post-produzione, My generation vede finalmente la luce, e porta sugli schermi veneziani un ritratto dei grandi cambiamenti degli anni ’60 attraverso gli occhi di un giovane Michael Caine e i suoi incontri con alcuni dei più importanti personaggi del tempo, andando a raccontare la nascita della tradizione pop, la genesi della controcultura giovanile e i movimenti della classe operaia a cavallo tra UK e USA.

Composto in maniera relativamente preimpostata da spezzoni e filmati di reportorio, My generation è un piccolo grande inno a quella vecchia classe bassa ormai talmente cambiata da non essere più riconoscibile che a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 ha sfondato quella versione troppo fragile di un conservatorismo sociale impostosi negli anni successivi al secondo dopoguerra. Con la voglia di entrare a fare parte dell’azione politica e di reagire alle vestigia del classimo, anche il narratore Michael Caine era lì, e si/ci racconta in prima persona, alternado filmati di repertorio, spezzoni dai suoi stessi film, vecchie conversazioni con icone del tempo e altro found footage esterno. Diviso in tre atti, una genesi delle pre-condizioni, un’ascesa e una conclusione dedicata alla droga, My generation rispecchia pienamente lo stile del tempo, colorato, estroso, “popeggiante”, il che rende il documentario estramemente piacevole, con più di un momento comico ben riuscito e un ritmo sostenuto.

L’indiscusso punto primario di forza è però la presenza di tutto il jet-set del tempo attraverso interviste (con Caine o meno): dai Beatles ai Rolling Stones, da Twiggy a David Bowie, da Donovan a David Hockney. La loro presenza attraverso vecchi filmati, magari anche con poche battute, rende l’opera più completa, credibile, fino al punto di riuscire a tratteggiare un quadro abbastanza preciso di quel preciso lasso di tempo. L’ultima parte è forse quella più debole, lasciandosi andare a un moralismo facilone sull’incremento dell’uso e del traffico di droga come se fosse direttamente subordinato ai fatti. Questa scelta fa scempio in parte di molto di quanto costruitosi con il film e nella realtà dei fatti (a suo tempo, ovviamente), non solo perchè disegna con troppa arrogante sufficienza un tracciante diretto tra due fenomeni sociologici molto complessi, ma anche perchè si lascia andare a conclusioni sommarie che rapportano quell’epocale movimento internazionale eventi di calibro decisamente insignificante: i personaggi succitati nei filmati di repertorio funzionano molto, ma sono effetti, non cause, e ciò rivela un approccio decisamente semplicistico e naïf da parte di Batty.

In conclusione, My generation non è nulla di diverso da quanto non ci possa aspettare. Ha molte risorse e una struttura ben congeniata, senza contare che l’apporto di un incarnazione sessantottina e non solo come Michael Caine rinvigorisce il film a ogni battuta dell’attore, ma d’altro canto è ingenuo nell’analisi e troppo semplificatorio, avvicinandosi alla generazione eponima forse con troppa deferenza ma insufficiente sistematicità.