Dopo The Apartment with Two Women, arriva dal Giappone un’altra folgorante opera prima per la regia della giovanissima Kawawada Emma, che in My Small Land cerca di approfondire, con un taglio quasi documentaristico senza con ciò rinunciare a una gestione squisitamente lirica e intimista della materia narrativa, la condizione dei richiedenti asilo residenti nell’Arcipelago, scrivendo di suo pugno una sceneggiatura di finzione che però corrisponde, purtroppo, alla storia vera di molti invisibili.
Nonostante parli il giapponese come prima lingua e sia perfettamente integrata nell’ambiente scolastico, la vita non è facile per Sarya – Arashi Lina, attrice hāfu di padre iraniano –, immigrata di origine curda in Giappone ormai da più di dieci anni, eppure ancora in attesa del riconoscimento dello status di rifugiata per se stessa e il resto della famiglia. Tra un lavoro part-time e l’altro, lei e il padre riescono a mantenere una vita dignitosa, ma le cose precipitano quando la loro richiesta di asilo viene ufficialmente respinta, facendo precipitare i quattro – ci sono anche un fratello e una sorella più piccoli – in un limbo legale, per il quale viene loro proibito di lasciare i confini della prefettura e avere un lavoro salariato. Proprio per aver contravvenuto a quest’ultimo divieto, il padre sarà incarcerato, costringendo Sarya a farsi carico del ruolo di capofamiglia.
Assistente alla regia di Kore-eda Hirokazu sul set di The Third Murder (2017), Kawawada lavora da allora presso la Bun-Buku, la casa di produzione fondata dal regista nel 2014, senza contare che ha già avuto l’onore di presentare My Small Land alla prestigiosa kermesse berlinese nella sezione Generation, alla quale Udine ha fatto eco nel confermare la qualità della pellicola, prova tangibile di un altro talento sbocciato in seno alla Waseda – la prestigiosa università di Tokyo dove si sono diplomati maestri del calibro di Imamura Shōhei e Kobayashi Masaki, fino ad arrivare allo stesso Kore-eda.
Nello specifico, My Small Land si inserisce nel solco di certo cinema giapponese indipendente degli anni Novanta, in cui l’attenzione per le minoranze etniche e le comunità di immigrati di seconda generazione, risvegliata soprattutto dal dibattito pubblico sul tabunka kyōsei (convivenza multiculturale) di stampo occidentale, cui anche il Giappone – a detta della sinistra – avrebbe dovuto presto adeguarsi, ci ha regalato pellicole come Blue Fish (1998) di Nakagawa Yōsuke – incentrato sui conflitti tra taiwanesi e cinesi del mainland nei sobborghi di Tokyo – o Afureru atsui namida (1992) di Hirotaka Tashirō – sul fenomeno dei matrimoni combinati con donne filippine nelle zone rurali. Tuttavia, non sono molte le opere che si confrontano direttamente col problema dei rifugiati, in primo luogo perché la maggior parte dell’opinione pubblica ne è all’oscuro, dal momento che le richieste di asilo che ottengono l’approvazione del governo sono talmente poche che coloro che hanno la fortuna di poter rimanere non costituiscono un numero importante, e tantomeno si arrischierebbero a far fronte comune per far sentire la propria voce.
Da qui l’urgenza dell’opera di Kawawada, la quale non commette l’errore di uno schieramento unilaterale di stampo ideologico, ma affronta anzi la questione con quanta più equidistanza possibile, lasciando che sia lo spettatore a trarre le proprie conclusioni. A questo proposito, è infatti interessante notare come, in seguito all’arresto del padre, non solo gli amici e superiori giapponesi, ma anche i connazionali curdi si tirino indietro, lasciando Sarya e i suoi fratelli privi di una rete di solidarietà e sicurezza che impedisca loro di finire nell’illegalità. Sulla falsariga di Nessuno lo sa (2014) di Kore-eda, My Small Land è a sua volta una storia di abbandono e di conflitto, testimone dell’indifferenza delle istituzioni degli adulti alle grida d’aiuto degli indifesi, che si mantiene però a distanza di sicurezza – i primi e primissimi piani sono quasi assenti, con la macchina da presa che, invece di farsi invadente, si comporta come un ospite rispettoso, che gode di un punto di vista privilegiato ma non diretto sulle vite dei personaggi – ed evita di istruire l’abusato paragone tra la “fredda” cultura urbana tokyota e il “calore” delle tradizioni del paese d’origine, a maggior ragione se si considera che Sarya e fratelli si identificano anzitutto come giapponesi piuttosto che curdi.
Ancora una volta, il lungometraggio di Kawawada dimostra come il cinema – e più in generale la cultura – giapponese non possa fare a meno di ripartire dagli artisti di sangue misto e dagli immigrati di seconda generazione per dare nuovo impulso alla propria offerta culturale, se effettivamente vuole tornare a occupare quel posto d’onore che fino a un decennio fa occupava saldamente nell’immaginario collettivo occidentale.