Armando Punzo il 17 giugno riceverà il Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia. Con l’occasione porterà in laguna Naturae. La valle della permanenza, lo spettacolo conclusivo di una lunga riflessione sulla natura umana che ha condiviso con i suoi attori della Compagnia della Fortezza. In questa conversazione racconta i punti di partenza e di arrivo di questo percorso.
È stato un periodo lungo, durato otto anni. Tutto nasce dal lavoro svolto su Shakespeare, due anni passati intorno ai suoi testi. Lo spettacolo d’esordio è stato Dopo la tempesta. Poi è arrivato Beatitudo e abbiamo incontrato Borges. Ma il punto di partenza, per quanto riguarda Shakespeare, è stato un libro che mi era capitato di leggere in vacanza. L’autore affermava che Shakespeare fosse tra i massimi filosofi dell’Occidente, e che in qualche modo avesse già detto tutto lui. Che nei suoi testi in sostanza si poteva ritrovare il senso di qualsiasi opera letteraria a lui posteriore. Ebbene, di fronte a quest’interpretazione mi sono sentito in difficoltà, perché proprio mentre stavo leggendo quel libro ho cominciato a pensare che se le cose stavano davvero così, bisognava ancora di più lavorare contro Shakespeare, anziché esaltarlo. Non c’è alcun motivo di esaltare il tipo di umanità che proviene dalle sue opere, un’umanità che ci assomiglia tantissimo. E soprattutto non dobbiamo pensare che quell’umanità sia immutabile, eternamente e inevitabilmente uguale. Ne è nato quindi un discorso contro Shakespeare ma anche contro chi evidentemente non ha un pensiero critico rispetto all’Occidente, rispetto a noi, alla nostra filosofia di vita, al mondo in cui stiamo vivendo. Credo che spesso le idee di chi fa teatro siano abbastanza confuse. Si mette in scena un’opera di Shakespeare, straordinariamente ben scritta, dimenticandosi che quell’operazione, quello spettacolo diventano solo una questione estetica, e non si considera l’orrore che quel testo ci racconta e ci consegna. Ecco perché mi sono messo in opposizione critica rispetto a Shakespeare. Da qui sono nati i due personaggi degli spettacoli successivi, Lui e il bambino. La domanda ricorrente è stata: “Dove vanno? Dove possono andare?” Quell’innocenza in qualche modo guida il protagonista: insieme vanno via, abbandonano Shakespeare, si lasciano alle spalle l’umanità che lui incarna. Il bambino mi prende per mano e ce ne andiamo via. Arrivato a questo punto, però, ho cominciato a interrogarmi. Era agosto ed ero finalmente andato un po’ in vacanza. Ma c’era qualcosa che mi tormentava, e ho interrotto le ferie per rientrare in carcere. Vedendomi, gli attori sono rimasti stupiti e mi hanno chiesto che cosa stesse succedendo. Gli ho risposto che avevamo avuto una bella idea a creare questo Lui che critica tutto, che porta in scena solo i resti di quell’umanità terribile – si trattava proprio di resti, niente di più: dei personaggi shakespeariani erano rimasti solo appunti – e poi gira le spalle e va via. “Ma dove va?” ho domandato. “Dove vado io? Dove posso andare? Sono davvero capace di voltare le spalle alla realtà, alla mia vita, a quello che sono, a come sono?” Partendo da qui abbiamo cercato di trovare delle risposte, consapevoli che se non avessimo risposto a quelle domande cruciali tutto ciò che avevamo realizzato sarebbe rimasta solo una sciocchezza, una trovata teatrale, uno spettacolo. Addirittura ho pensato e gli ho detto che se non fossimo stati capaci di trovare delle risposte non sarei più tornato in carcere, perché tutto sarebbe stato inutile.

E arriviamo a Beatitudo, con la riscoperta di Borges.
Il problema era continuare a lavorare sull’immagine che avevamo costruito. Così è nato Beatitudo, il lago… E sì, è arrivato Borges. Mentre lavoravo su Shakespeare stavo rileggendo le sue Conversazioni, che mi sembrava fornissero risorse straordinarie. Però ero concentrato su Shakespeare, e non ho stabilito subito un collegamento. Poi, alla fine del lavoro, mi sono ritrovato Borges in mano. Borges è un autore che indica una strada completamente diversa rispetto a Shakespeare. Non sono molti gli scrittori come lui, che rimettono sul serio in discussione tutto. Borges non si può leggere come uno scrittore di raccontini, perché dietro ognuno di quei racconti c’è un invito a lasciare se stessi, a rendersi conto dell’esperienza estetica che si sta facendo in quel momento come lettore. È come se ci avvertisse dicendoci: “Guarda, quello che tu stai vivendo adesso è quello che dovresti fare tutti i giorni”. In sostanza significa morire a se stessi. Prendo a prestito un’immagine che viene dal buddismo, quella dell’uscita dalla ruota della vita. Ho cominciato a pormi domande su questo: è possibile uscire dalla ruota della vita? E mi sono risposto di sì. Non è possibile che siamo condannati a essere quello che casualmente, per un accidente della storia, noi siamo. Non ci credo. Soprattutto se penso a tutto quello che abbiamo fatto dentro il carcere, che è un luogo della realtà, di questa realtà. Basta ricordare cosa era trentacinque anni fa e cos’è oggi. I luoghi mutano, come le persone. Non è un pensiero teorico o un’illusione. Certo smuovere la realtà è estremamente faticoso. Così come lo è mettersi in crisi e porsi delle domande. Ma questo è il senso di questi otto anni di lavoro. Lo ripeto, tutto è ruotato attorno a precisi interrogativi: “È possibile rimettere tutto in crisi? è possibile per ciascuno riformulare delle domande da zero?” Perciò è apparso quel bambino. Ho capito che c’era bisogno di uno sguardo veramente innocente, perché guardando attraverso gli occhi di quel bambino, Otello e Desdemona sono figure orribili. Figure fuori misura, inspiegabili e ingiustificabili. Per arrivare fino a questo punto di consapevolezza abbiamo letto e studiato tutto Shakespeare. Da qui è nata la nostra critica nei suoi confronti e verso quello che rappresenta.

È il canone occidentale…
Esattamente. Shakespeare esalta il canone occidentale. Ma cosa c’è da esaltare, se ci si guarda intorno? Ho progressivamente sviluppato la convinzione che se noi siamo così è colpa di Shakespeare e di tutti gli altri che fanno parte del canone occidentale. A meno che qualcuno non pensi che ciò che siamo e rappresentiamo sia straordinario. Eppure di gente convinta di questo ce n’è molta. Certo, dal punto di vista economico e materiale noi siamo la parte più fortunata che abita questo pianeta. Siamo quelli che mangiano, che fanno una bella vita. In Occidente anche i più disgraziati, coloro che vivono come dire “sulla soglia”, il problema della sopravvivenza quotidiana l’hanno risolto. Ma per me non è questa la qualità della vita. Sarebbe come se mi preoccupassi di far aggiungere una bistecchina in più nel menu del carcere, o di far ottenere ai miei attori mezz’ora d’aria in più. Sono cose importanti, ovviamente, ma non si può ridurre la vita a questo. Quando parlo con i miei attori, naturalmente comprendo i loro problemi, la detenzione, il vivere per anni rinchiusi. Ma credo sia necessario affrontare la vita in modo diverso: bisogna essere liberi stando in galera. Perché, d’altro canto, io mi sento in galera anche stando fuori. Lo so che può sembrare un azzardo, perfino una mancanza di rispetto per le persone che sono chiuse in una prigione. Però ognuno ha fatto la sua vita, ha operato le sue scelte, quindi a me non interessa il politically correct, anzi ci vado abbastanza contro. Credo sia necessario avere un’altra qualità di vita in carcere. Immaginare qualcosa che in Occidente si è perso. In difesa delle cause perse di Slavoj Zizek ci racconta le tante rivoluzioni tentate dagli uomini e poi abortite, ci narra ad esempio il fallimento del comunismo. Ma ci dice anche che il comunismo è fallito perché è stato applicato da noi, con i nostri limiti di essere umani. L’idea in sé non è per nulla terribile. L’applicazione invece ha comportato una serie incredibile di mostruosità. Quindi la questione, ciò che sul serio mi interessa, è l’evoluzione dell’uomo. E mi chiedo sempre con maggior insistenza dove stia andando il nostro Occidente. In questi ultimi anni ho ripreso a frequentare i teatri, cosa che in precedenza non facevo. Ma sulla scena, come nei libri che costantemente acquisto, la storia è sempre la stessa: vince comunque e sempre la realtà. Cioè la copia, la rappresentazione di quello che siamo, non di quello che potremmo essere e di quello che potremmo sognare di essere per davvero, senza limitarci a immaginarlo. Di tutto questo non sembra vi sia alcuna traccia. A teatro siamo immersi nel reality, è sempre presentato un mondo ripiegato su se stesso. Non mi sembra che si sia più capaci di guardare oltre. Il percorso di questo lungo lavoro nasce da questo, parte da Beatitudo con Borges come straordinario compagno di strada. Lui e il bambino lasciano il lago della vita e vanno via. Ma torna ancora, inesorabile, la domanda: “dove vanno?” Da qui siamo arrivati a Naturae, che si sviluppa in quattro quadri.

Non credo sia un caso il fatto che tu utilizzi il plurale Naturae. Comunque sia, alla fine del viaggio c’è la valle della permanenza. Che cosa significa per te e per voi “permanenza”?
In questa nuova fase abbiamo incontrato un altro fondamentale compagno di strada, Farid ad-din Attar e il suo Verbo degli uccelli. In carcere abbiamo una biblioteca, o meglio una parete piena dei libri che ci hanno accompagnato in questi anni. Tra questi c’è anche Il verbo degli uccelli, in estrema sintesi una sorta di favola metaforica in cui l’upupa vuole partire, e sprona gli altri uccelli ad andare a cercare il Simurgh. In verità questo libro mi accompagna da più di trent’anni, anche se non l’ho mai messo in scena. È un poema straordinario, che noi abbiamo letto e riletto. L’upupa insiste sulla necessità di andare via, ma nessuno l’ascolta. Sono tutti impegnati a vivere la loro vita tranquilla, felice e senza preoccupazioni. Con i miei attori ci siamo subito detti che questi uccelli siamo noi. Di fronte alle difficoltà desideriamo cambiare, ma poi però rimaniamo inceppati, bloccati, non abbiamo nessuna intenzione di muoverci. Nato da queste premesse, Naturae è un lavoro sull’essere umano. Questo antico poema persiano racconta un viaggio iniziatico, e contiene al suo interno una serie di valli. Dopo averne oltrepassate sette, si giunge all’ultima, la più difficile e complessa: la valle della permanenza. Tutto il viaggio riguarda l’abbandono di sé, è un percorso mistico che ti indica il modo di prendere le distanze da te stesso. Come dice il buddismo, essere consapevoli di chi si è e cominciare a lavorare per migliorare è possibile. In direzione della luce, della giustizia. Quella della permanenza, come dicevo, è la valle più importante, ed è la più difficile, perché è vero che attraverso un proprio percorso si può raggiungere la consapevolezza di sé e ottenere dei risultati. Il problema enorme però è permanere in quella condizione, e non ritornare indietro. È molto facile provare entusiasmo per un qualche cambiamento interiore e poi tornare indietro. Il problema, insomma, è stare nello stato che si è raggiunto. La valle della permanenza, cioè lo spettacolo che chiude il ciclo di Naturae, indica tutto questo. Il nostro protagonista dopo un lunghissimo viaggio arriva a questa condizione personale. Ha finalmente capito, e dunque diventa affermativo. Questo è quello che secondo me manca a noi nell’Occidente: affermare che è possibile immaginare una direzione altra, che non si tratta di meri sogni o vane utopie. Un’altra realtà si può creare, esiste, è reale quanto la realtà in cui siamo immersi, che non è altro che una delle possibilità. Non certo l’unica. Naturae nasce dall’idea che dentro l’uomo questa realtà diversa c’è.

Il senso di questo viaggio e di questa ricerca emergevano molto chiaramente nello spettacolo dello scorso luglio. Ed era veicolato dalle parole che accompagnavano le azioni. Da dove le hai ricavate?
In questo lungo percorso ho accumulato più di ottocento pagine di appunti. Quindi abbiamo abbandonato gli autori e abbiamo usato quelli, o meglio una ridottissima parte di tutti quei materiali. Quelle che compaiono nello spettacolo sono le frasi che io scrivevo per me stesso, per spiegarmi con gli attori, con i collaboratori. Servivano a esprimere cos’era questo lavoro, cosa volevo fare, quali erano i miei desideri. A un certo punto mi sono reso conto che il testo era proprio quello. Dentro ci sono spunti, parole, immagini, raccolte durante la preparazione. In quei lunghi incontri ci siamo detti che le naturae sono dentro l’essere umano. Noi siamo in grado di riconoscere l’armonia che c’è in noi e nel mondo esterno a noi, ma non ci preoccupiamo di coltivarla. Tutto questo esiste nell’uomo, non è un’invenzione o una chimera. Al nostro interno ci sono delle qualità straordinarie, che spesso sono sotterrate in un pozzo profondo dentro di noi. Un pozzo scaturito dalla vita che facciamo, dalla cultura che ci siamo creati, da come ancora, in Occidente, intendiamo la fase cognitiva. Le Naturae sono queste, e si scoprono dentro noi stessi, bisogna provare a farle emergere.

Mi ha molto emozionato il senso di gioia che emana da tutto lo spettacolo.
Recentemente sono stato al Teatro Greco di Taormina. Ci ero già stato, ma questa volta, seduto lì, ho avuto un’intuizione. Tutti noi abbiamo un nostro teatro interiore, composto di tanti elementi che siamo in grado di distinguere e far uscire fuori. Il problema è cosa si cerca dentro di sé. A cosa si dà importanza. Come ho già detto, nel teatro contemporaneo, ma anche nella letteratura e nel cinema di oggi, non mi sembra vi sia altro che la riproduzione della realtà attuale. Senza nulla togliere alla sua bravura, mi pare emblematico il caso di Milo Rau: sono rimasto allibito dal fatto che tante persone e tanti critici importanti pensino che quello sia il teatro. In fondo, non fa altro che raccontare gli orrori di questo mondo, che si potrebbero approfondire e comprendere molto meglio con altri linguaggi, come per esempio attraverso la televisione e i documentari. Il lavoro che ho cercato di fare io invece è stato selezionare cosa far vedere. Ho provato a far pulizia, a far emergere la gioia, la felicità. Da homo sapiens a homo felix: ne ho parlato anche nel libro scritto con Rossella Menna. Per me quel volume è una sorta di testamento, e ho trovato in Rossella, con la quale avevo già da tempo instaurato un dialogo, la persona perfetta con cui elaborarlo. Sentivo la necessità di dire cos’è il mio lavoro per me, al di là di come è stato letto dagli altri e di come è stato utilizzato, anche politicamente. Certo, non vale solo il mio parere, però volevo lasciare una traccia del mio punto di vista. Io non sono né un educatore né uno psicologo, non mi è mai interessato il teatro sociale. Credo che questo approccio significhi sminuire quello che ho provato a costruire in questi anni. E soprattutto sminuire le potenzialità del teatro.

Come ha influito sui tuoi attori questa riflessione sulla natura umana?
Questi ragionamenti li abbiamo condotti insieme, sono stati il pane quotidiano degli ultimi otto anni. Un folto gruppo di loro si è immerso profondamente dentro questo percorso, ha seguito intimamente le tappe di questa evoluzione e si è confrontato anche personalmente con queste questioni. Quelle che ci siamo posti sono domande vere. E ci siamo detti che potevamo provare a giocarcela, questa cosa, senza fingere. In certi momenti è diventato molto difficile. Perché solo se si smette di fare finta, si comprende se si è veramente capaci di cambiare qualcosa di noi stessi. È faticosissimo, ma credo sia l’unica cosa che ha un senso.