Nella Jacuzia, propaggine estrema siberiana dello sterminato territorio russo di oggi, vivevano un tempo solo popoli autoctoni con millenarie tradizioni, che sopravvivono in parte, pur se soggiogate e addomesticate dalla “civilizzazione” dei conquistatori europei. Chabdzij e Keremes sono due membri di quel popolo, che sul finire del XIX secolo devono fare i conti proprio con i colonizzatori russi, e cercare di salvare non solo riti e costumi, ma anche la propria stessa vita.

Esistono territori che un italiano medio ha sentito tutt’al più nominare giocando a Risiko. Uno di questi è forse la Jacuzia, territorio esteso più o come quanto l’intera Argentina, che costituisce una delle repubbliche della odierna Federazione Russa: una vastità di foreste e corsi d’acqua difficilmente immaginabile, tanto da rappresentare l’unità amministrativa più grande del mondo. Ovviamente vi vivono numerose etnie, da quelle autoctone e più antiche (ivi compresi, appunto, gli jacuti) a quelle slave (russi, ucraini…) che iniziarono la colonizzazione nel lontano XVII secolo. Lungo i secoli e nonostante i cambi di regime, il territorio e la popolazione sono poi rimasti sempre soggetti e ormai integrati sotto il potere di Mosca, ma come avviene per ogni processo di scontro, assimilazione e integrazione, le ferite storiche non sono state tutte totalmente rimarginate.

Ce lo viene a ricordate appunto un regista di cittadinanza russa che appartiene alla summenzionata etnia, Vladimir Munkuev, che dopo alcuni cortometraggi con questo suo toccante esordio sembra volersi togliere qualche sassolino nei confronti dei civilizzatori/colonizzatori slavi. La questione storica trattata attraverso il prisma di una singola vicenda privata è infatti piuttosto delicata: siamo attorno al 1880, lo deduciamo anche dal fatto che Il lago dei cigni di Cajkovskij è stato già composto (lo sentiamo risuonare nella musica intradiegetica come unico elemento culturale allogeno), e nelle estreme propaggini dell’Impero russo lo zar ha mandato i cosacchi a tenere sotto controllo i tanti popoli indigeni, similmente a quanto successe, per esempio, con i popoli caucasici. La combinazione di scontri ed assimilazioni ha portato ormai gli jacuti ad essere, volenti o nolenti, parte integrante del macchinario di potere dello zar, e soprattutto anello obbligato dell’ingranaggio di sfruttamento delle enormi ricchezze boschive e minerarie del proprio stesso territorio. Ci troviamo dunque, né più né meno, in una situazione di stallo o di pace forzata simile a quella degli indiani d’America dopo la loro sconfitta definitiva.

Nella vicenda narrata a farne le spese è soprattutto il povero protagonista Chabdzij, pescatore e cacciatore costretto a vivere con la moglie Keremes in una radura solitaria per volere del signorotto jacuto del luogo, una sorta di vassallo feudale che sfrutta i membri del proprio popolo e si atteggia a “principe” della foresta, non accorgendosi (forse) di svolgere semplicemente le funzioni di schiavista/kapò della propria stessa etnia. Sulla base di un racconto del polacco Waclaw Sieroszewski (che era stato per diversi anni prigioniero zarista proprio in quei luoghi) Munkuev prepara nella sua sceneggiatura la superficie di scontro e di incontro fra storia individuale e Storie dei popoli, che trovano una nuova faglia di attrito locale quando Kostja, un giovane prigioniero russo, viene acquartierato forzosamente nella povera capanna dei due jacuti, per il tempo che il governo zarista deciderà di imporgli come punizione, e in attesa di stagioni atmosferiche e politiche migliori. Purtroppo, sembra dirci il regista, in questa vicenda personale si rispecchiano la sorte e il rapporto di due popoli nella loro interezza, in quanto il deportato russo inizia presto a spadroneggiare anche in casa d’altri, portando la rovina, la disperazione e soprattutto (elemento fondamentale nei popoli di così antiche tradizioni) la perdita dell’onore e del rispetto nel focolare del povero Chabdzij. Nella vicenda di sopraffazione ed arbitrio dell’invasore casalingo russo nei confronti dei pacifici sposi jacuti sembrano realizzarsi in piccolo le dinamiche deleterie e antiumane dei processi di colonizzazione. Con la pretesa di portare cristianizzazione e civiltà a popoli antichissimi i russi qui impongono le proprie leggi con la violenza e il ricatto del compromesso, in quanto solo accettando la “protezione” di una cultura superiore si vedrà salvaguardata la propria esistenza, e poco male se in questo contratto molto impari sarà comunque il colonizzatore ad avere l’ultima parola nei momenti di confronto antropologico: le persone riceveranno un nuovo nome civile, slavo (Chabdzij sarà chiamato ufficialmente Vasilij), i riti ancestrali sopravvivranno solo in posizioni marginali o folkloriche, il potere locale sarà solo simbolico.

Munkuev dimostra di conoscere le antiche tradizioni del suo popolo, pur non idealizzandole: si veda la straziante fine che fa una vecchia donna jacuta quando decide di sottoporsi alle antiche pratiche funerarie dell’etnia locale; o ancora si noti come, insieme ai russi-invasori, venga criticato soprattutto il colpevole “collaborazionismo” del misero capetto del villaggio, pronto a farsi anch’egli sfruttatore pur di addivenire ad un compromesso vantaggioso con i cosacchi. E l’autore dimostra anche un intenso amore per la propria terra e per il suo destino non facile: lo si nota nella tessitura visiva, tutt’altro che pittoresca, di laghi e foreste che sono tematizzati in modo funzionale come riserve di spiritualità e loci ameni in pericolo.

Qualche considerazione finale: il titolo è il termine con cui gli jacuti definiscono i russi, mentre, anche se non è ancora esplosa una “ondata” nazionale, all’interno della produzione della Federazione Russa la sezione regionale della repubblica jacuta sembrerebbe dimostrare una particolare vivacità, visto che alcuni film jacuti sono recentemente passati anche a Berlino, o che il film Il fantasma di Dmitrij Davydov ha vinto il prestigioso premio nazionale al Kinotavr 2020 di Sochi. Non è un caso che il noto regista Boris Chlebnikov fosse in giuria di quel festival russo, tanto da convincersi poi a co-produrre questo coraggioso esordio di Munkuev. La Federazione Russa è enorme, e tantissime sono le anime, anche geografiche, del suo cinema; che da Jakutsk, Lensk o da Ojmjakon dobbiamo aspettarci una nidiata di nuovi talenti?