A distanza di ben dieci anni della sua opera prima Countdown (2012) che gli era valsa il Premio del Pubblico, Nattawut “Baz” Poonpiriya torna al Far East con One for the Road, un road movie dalle apparenze piacevolmente ingannevoli che segna la sua piena maturazione autoriale, nonostante l’impronta forse troppo forte – e difficilmente assimilabile all’estetica poonpiriyana – di un produttore d’eccezione: il mostro sacro Wong Kar-wai.

One for the Road

Totalmente assorbito dalla gestione del suo locale a New York, il barman Boss – il cantante e attore di thai drama di etnia cinese Thanapob Leeratanakachorn – riceve una chiamata inaspettata dal suo amico di lunga data AoodIce Natara, anche lui modello e attore televisivo –, nella quale questi gli confessa di essere in punto di morte. Prima che la leucemia gli porti via le ultime forze, però, vorrebbe che Boss lo accompagnasse in un viaggio nel loro paese d’origine sulle tracce delle sue ex fidanzate, con l’intento di restituire loro alcuni oggetti del passato. Dopo anni di silenzio, i due si ritrovano così a percorrere le strade della Thailandia a bordo di una macchina sportiva, in un viaggio che servirà anche a fare il punto sul loro complesso rapporto.

Dopo aver ricevuto l’apprezzamento unanime di pubblico e giuria al Sundance, Poonpiriya fa tappa a Udine per presentare quella che è senza ombra di dubbio la sua opera più matura, anche se non esattamente la più riuscita. Ciò detto, per quanto l’incipit possa trarre in inganno, come detto sopra One for the Road non è il solito road movie dalle coloriture buddy e abbandona presto la tipica struttura a tappe, la colonna sonora anni Settanta/Ottanta da Easy Rider e l’attenzione quasi voyeuristica per i paesaggi, utilizzando il pretesto narrativo della consegna di oggetti dal forte valore simbolico per impostare una raffinata riflessione sul passato e il suo ascendente sul presente.

Nello specifico, è proprio questa seconda parte, incentrata sui ricordi di Boss e Aood a New York e che racchiude l’episodio all’origine della loro separazione, a mostrare l’influenza di Wong, sia per quanto concerne fotografia e montaggio – evidenti gli influssi della Trilogia dell’Amore, soprattutto dell’ultimo capitolo 2046 (2004), nell’utilizzo della penombra e nelle digressioni che diluiscono il flashback principale – che nei dialoghi, più sofisticati e carichi di tensione drammatica man mano che i ricordi prendono il sopravvento.

Nel complesso, si tratta di un cambiamento notevole a livello di stile per il regista, imputabile anche alla sua emancipazione dalla GDH, la casa di produzione alle spalle dei suoi primi lungometraggi, caratterizzata da una policy aziendale all’insegna dei toni distesi allo scopo di mantenere aperto il canale della grande distribuzione. Arrivato a questa fase della sua carriera, sembra invece che Poonpiriya sia più propenso a virare definitivamente verso il dramma, benché sia difficile stabilire quanto le raffinate scelte di messinscena e postproduzione siano frutto di un percorso di evoluzione autonomo, piuttosto che un mero esercizio di imitazione sulle orme del maestro – d’altronde, il rischio di risultare derivativi è sempre insito nelle produzioni dove un grande nome compare a fianco di un artista in corso di affermazione.

One for the Road

Sotto un altro punto di vista, One for the Road potrebbe essere interpretato anche come una rielaborazione, in chiave autoriale e spogliata delle coordinate di genere, dell’opera prima di Poonpiriya Countdown, dove la paradossale minaccia della morte metteva tre coinquilini di stanza a New York – anche in questo caso, due maschi e una femmina – a confronto con i propri peccati in senso lato, tra cui figurava anche il tradimento reciproco a causa di una donna contesa. Per chi conosce il regista, si tratta dunque di una sorta di ritorno alle origini accompagnato da un restyling nella seconda parte del film – che purtroppo mal si collega alla prima, più marcatamente comica, in cui Aood rincontra le sue ex rimaste in Thailandia –, e che tuttavia lascia dietro di sé un grande punto interrogativo, dal momento che l’ultimo Bad Genius (2017) aveva disegnato tutt’altra traiettoria, dimostrando come fosse possibile reinventare un genere – quello dei “bambini prodigio” – ricorrendo a coordinate squisitamente locali.

Che affidarsi alle pur sapienti – ma forse invadenti – mani di Wong Kar-wai sia stata davvero la scelta giusta? Per il momento non possiamo che aspettare, rimanendo comunque fiduciosi alla luce dei progressi mostrati in One for the Road, un altro must see che si inserisce coerentemente nella filmografia di Poonpiriya.