Orfeo ed Euridice al Castello carrarese

Non melodramma bensì azione teatrale in tre atti a lieto fine, composta nel 1762 in onore dell’onomastico dell’imperatore Francesco I d’Asburgo, Orfeo ed Euridice fu il primo frutto della riforma gluckiana che decretò, grazie alla ricerca per sottrazione di un’idea di teatro musicale in cui subordinare il sentimento alla ragione, al valore della parola, alla raffinata e complessa orchestrazione, alla durata modesta e alla riduzione del numero dei personaggi, un nuovo modo di fare opera.

Proporre l’ Orfeo di Gluck in una rassegna estiva e addirittura all’aperto è scelta coraggiosa. Certo la piazza d’armi del Castello carrarese di Padova non è il luogo più adatto per far risaltare il classicismo autentico, le atmosfere infernali ed elisie e la novità della scrittura vocale di cui Gluck è maestro, eppure l’azzardo riesce grazie alla risposta positiva del pubblico a questo titolo poco frequente nei cartelloni.

Il direttore Marco Angius, in nome delle molteplici forme che l’Orfeo assumeva nel suo migrare europeo, compie alcune aggiunte molto personali. L’Ouverture viene sostituita dal poema sinfonico Orpheus di Liszt, in origine prologo dell’edizione curata dal compositore a Weimar nel 1854. Dopo la seconda morte d’Euridice Angius inserisce un breve frammento della seconda Sequenza per arpa di Berio, a sottolineare il cortocircuito intimo di Orfeo. Più che originali, paiono un omaggio alla poliedricità dell’Orchestra di Padova e del Veneto, da sempre versata nel repertorio classico e contemporaneo. Angius propone una lettura che coniuga antico e contemporaneo, corretta nella scelta delle dinamiche e volta a una serrata narratività.

Less is (not always) more

Definito spettacolo sceno-coreografico, questo Orfeo è una mise-en-espace riuscita a metà. Se, da un lato, la totale mancanza di scenografie permette allo spettatore di concentrarsi sulla perfezione del rapporto testo-musica, dall’altro l’intento coreografico, elemento a suo tempo fondamentale nell’economia dell’opera barocca e riformata, si perde nell’affollata coesistenza di coro e ballerini. Apprezzando gli sforzi della Compagnia Lubbert Das di Nicoletta Cabassi, si fatica a trovare un senso alle volontà coreografiche se non nell’unico momento esclusivamente coreutico, la celebre Danza delle furie proveniente dal coevo balletto Don Juan e inserita da Gluck nell’ Orphée francese del 1774.

C’è qualche minima e azzeccata indicazione registica solo all’inizio, quando al compianto funebre presenzia Thanatos, tristo mietitore che altri non è che Amore, motore della vicenda. I protagonisti indossano tutti maglietta e pantalone nero, come i ballerini, all’insegna di un esistenzialismo fuori luogo. Il coro, impegnato in estenuanti girotondi e bissaboe, si presenta in argentee tuniche crespate e con parrucchini biondi in testa francamente brutti. In mancanza di idee, è sufficiente una versione da concerto.

Nel ruolo eponimo Laura Polverelli che compensa la voce poco voluminosa con un registro grave maturo. Il suo Orfeo è combattuto tra il sentimento interiore e il sottostare al volere divino, vibrante di un tormento che traspare soprattutto in momenti come “Che puro ciel!” e “Che farò senza Euridice!”. Ottima l’Euridice di Michela Antenucci, caratterizzata da fraseggio puntuale, intonazione precisa e freschezza vocale. Veronica Granatiero veste i panni di Amore, descritto con grande impegno, seppure non sempre chiaro nell’emissione. L’orchestra, posta in fondo al palco, costringe i cantanti a uno sforzo in più che si aggiunge alla prova nel contesto esterno.

Buono il contributo del Coro Iris Ensemble, diretto da Marina Malavasi, nonostante alcune disomogeneità tra i registri.

Successo per tutti alla recita del 12 luglio 2019.

Luca Benvenuti

Credits: Giuliano Ghiraldini