La regista di The Golden Era (2014) Ann Hui torna a distanza di tre anni a parlare delle miserie della Hong Kong occupata con Our time will come, questa volta non attraverso la drammatizzazione della vita di un grande personaggio come vorrebbe la tradizione del biopic ma adottando il punto di vista degli umili che furono il vero motore della resistenza.

Hong Kong, anni Quaranta. Lan Xun Zhou – e Kam-wingWallace Huo – sono innamorati ma destinati a prendere strade diverse: lei quella di paladina della resistenza alla guida del braccio armato, lui di segretario presso un generale dell’esercito nipponico e di spia al servizio dei suoi compatrioti. Il destino concederà loro di ritrovarsi, anche se la loro missione li porterà inevitabilmente a sperarsi ancora.

Ispirato alle vite di personaggi realmente esistiti, Our time will come si apre come un documentario di ricerca in bianco e nero con l’intervista a un sedicente ex partigiano – in realtà il grande attore hongkonghese Tony Leung – cui corrisponde nella parte narrativa del film – suddivisa in tre sezioni, la cui cesura è segnalata appunto dagli interventi di Leung – l’alter ego Blackie, interpretato da un Eddie Peng irresistibile nella parte del ribelle dal cuore d’oro. A riallineare il piano della finzione e della “realtà”, un campo lungo con dissolvenza della baia di Hong Kong ieri e oggi, i cui grattacieli – suggerisce Hui – sono il frutto degli sforzi di chi, come Blackie, non ha mai avuto paura di ricominciare.

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Moltiplicando i punti di vista invece che adottarne uno solo, Hui tenta di ricostruire con una certa prolissità la quotidianità dei suoi personaggi e il loro iter dalla passiva accettazione alla reazione, e nel farlo evita le convenzionali semplificazioni sull’oppressore: quello che tange alla regista infatti non è esibire la crudeltà dei giapponesi – già analizzata in tutte le sue sfumature dal cinema delle ex-colonie dell’Impero del Sol Levante – ma mettere in luce le difficoltà di conciliare l’amor patrio con l’aspirazione a condurre una vita normale.

È anche un mosaico generazionale e sociale, con l’anziana signora Fong – la sempre impeccabile Deannie Ip, che contribuì in gran parte al successo di A Simple Life (2011) – che decide di restare nonostante tutto e gli intellettuali esuli dalla Cina che non si riconoscono in un sistema per il quale costituiscono un nemico da eliminare.

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Altro grande protagonista è come sempre il paesaggio, che non è semplicemente fondale o elemento di contestualizzazione ma attante a tutti gli effetti: a parte qualche long shot estetico la macchina da presa non si concede il lusso di inneggiare alla bellezza della Cina rurale: sta a noi desumerlo, da come esso aiuta indirettamente i nostri protagonisti a svignarsela da una truppa di ricognizione o a trovare rifugio – anche spirituale – in un momento di difficoltà.

Vera novità di Our time will come sono però le sequenze di azione pura, che seppur fiaccate da qualche momento di umorismo fuori luogo non stonano con il lirismo della pellicola. L’impressione d’insieme che ne deriva è di un’opera estremamente coerente con la poetica dell’autrice, la quale allarga ulteriormente l’ambito della propria riflessione guardando al passato della sua terra. C’è da dire però che, proprio considerando la statura di Ann Hui, era lecito aspettarsi qualcosa di più: preso in sè e per sè è certamente valevole, ma all’interno della sua filmografia rischia di risultare un po’ anonimo.