Orizzonti, da sempre la più variegata ed eterogenea delle sezioni della Mostra del Cinema di Venezia, in questo 2019 apre con Pelikanblut, opera seconda della trentaseienne Katrin Gebbe, giovane regista tedesca alla seconda regia di un lungometraggio dopo Tore tantz nel 2013.
Il titolo già richiama, facendo riferimento all’iconografia religiosa cristiana, l’immagine della madre pellicano che arriva a ferirsi per nutrire i piccoli con il suo stesso sangue, ma non serve molto (giusto un paio di minuti) perché un quadro con lo stesso soggetto faccia capolino nella scena e nel profilmico, rappresentato sulla parete di un orfanotrofio, esplicitando subito la natura dell’opera.
Da quell’orfanotrofio è appena andata via Wiebke, addestratrice di cavalli per le forze di polizia e madre single di ben due bambine ora, mano nella mano con la cinquenne Raya, che andrà a fare compagnia a Nicolina, di qualche anno più grande. La situazione sembra procedere senza alcun intoppo ma l’idillio dura poco, poiché Raya manifesta comportamenti inquietanti e violenti, rappresentando sempre più un pericolo per sé e per gli altri bambini. Nessuno sembra voler aiutare Wiebke, e lei non rinuncia assolutamente alla figlia sacrificandosi senza ripensamenti.
Wiebke è una madre pellicano e in più occasioni, letteralmente e non, verserà il sangue eponimo in una sequela di tentativi via via più disperati. Raya ha infatti subito un devastante trauma infantile che le ha inibito buona parte della facoltà emotive, e non è proprio in grado di comprendere se è causa di sofferenza per chi le sta vicino, ma la sua nuova madre non è disposta a lasciare nulla di intentato, oltrepassando anche i limiti della razionalità nelle battute finali.
Pelikanblut è un film che miscela i generi, passando da un thriller con venature horror a un dramma più convenzionale con il passare dei minuti, puntando tutto su una sceneggiatura quadrata e piuttosto articolata che finisce però, nonostante la compattezza di fondo, per costituire il nucleo di un’opera incerta e ridondante, persino barocca in alcuni frangenti. Nel sovrapporre i vari elementi e i sub-plot (la gelosia dell’altra figlia, la storia d’amore con un poliziotto, la perdita di motivazione nel lavoro, il rapporto con i cavalli e quello con la nuova recluta Alma, la critica alle istituzioni) Gebbe perde il filo del discorso fin troppo presto, trovandosi con una moltitudine di intrecci simili ma incapaci di legare bene fra loro, restituendo invece una sensazione di smarrimento.
Si tratta del solito film che non è né carne né pesce, senza acuti ma senza grossi problemi di struttura e che non si fa ricordare, che sia nel bene o nel male. La climax attraverso la quale Wiebke si scontra con la figlia e l’ostracismo nei confronti della malattia si dipanano in episodi numericamente eccessivi e internamente ripetitivi, tanto che il punto è chiaro molto prima della fase ascendente. Un’architettura così rigida soffoca il film, lo costringe a spalmarsi per poco più di due ore di durata con un ritmo spoglio di qualunque variazione. Non si tratta di un film monotono, ma di un film dal tono monotono, che giocoforza incide sull’esito finale e non solo in parte, riuscendo a smorzare l’intensità evocativa dell’ultima parte pur di non rinunciare a una messa in scena conservativa, senza calcare la mano nemmeno in questo caso sulla simbologia animale, potenzialmente un fattore più interessante di altri.
Nina Hoss di fatto regge l’intera pellicola sulle spalle, poiché i coprotagonisti sono così tanti da doversi dividere il restante screentime in frazioni minuscole, non riuscendo mai a restare impressi o a esprimere una caratterizzazione interessante. Questo sgravio pesa eccome sull’attrice che non ha purtroppo lo smalto per reggere così a lungo e con la stessa forza un’interpretazione di questo tipo: ha passato talmente tanto tempo a disperarsi già all’inizio che sembra smorta quando, all’ultima spiaggia, dovrebbe dare il meglio, dando fondo a tutte le energie. Solo il rituale con cui la bambina dovrebbe essere liberata dallo spirito guardiano maligno – Wiebke ha ormai perso fiducia nei medici che prima le dicono che questo tipo di trauma non si può curare e negli amici che vogliono tenere lontani i loro bambini da Raya – risveglia il film dal torpore a cui sembra essersi abbandonato, nonostante la spregiudicatezza con cui vengono portati alla luce – con successo – i dettagli più morbosi, l’allattamento indotto con i farmaci per replicare l’esperienza materna su tutti.
Un finale ambiguo ma propendente al lieto fine conciliatorio non può essere definito come un difetto di questo Pelikanblut, ma è l’ennesima dimostrazione di un’opera che non fa proprio del suo meglio per farsi guardare e, soprattutto, non sa scegliere, mettendo dentro un po’ di tutto e perdendo identità fin dal principio.