Forte del successo planetario riscosso dal suo One Cut of the Dead (2017), il cui remake a opera di Michel Hazanavicius avrà l’onore di aprire le danze sulla croisette il prossimo maggio, Ueda Shin’ichirō torna sugli schermi del festival che per primo riconobbe il suo talento con Popran, una commedia dell’assurdo caratterizzata dal consueto gusto per l’osceno e la corporeità che, pur senza impostare una riflessione altrettanto ambiziosa sugli indistinti confini del mezzo cinematografico, riesce comunque a far ricordare allo spettatore il piacere dell’evasione dalla realtà e della satira fuori dagli schemi, nello stile del miglior cinema indipendente dell’Arcipelago.

Popran

Sono ormai dieci anni che Tagami TatsuyaMinagawa Yōji – si è lasciato alle spalle il suo vecchio socio in affari, come pure la moglie e i genitori, per venire a Tokyo e mettere in piedi la più grande azienda di distribuzione di manga online del paese. La sua vita, benché solitaria, procede a gonfie vele fino alla mattina in cui, senza accorgersene, le sue parti intime scompaiono, lasciando al loro posto soltanto un buco. Per puro caso, scoprirà che gli strani oggetti volanti non identificati che da qualche tempo solcano i cieli del Giappone, noti come popran, altro non sono che i falli di altrettanti uomini sfortunati. Inizia così per Tatsuya la ricerca del suo “flying fish”, che lo costringerà a tornare nei luoghi che credeva di avere abbandonato per sempre.

Da alcuni definito il Quentin Dupieux giapponese per il suo gusto surreale e l’umorismo a prima vista infantile – ma allo stesso tempo raffinato nell’esporre la fragilità umana dinanzi all’irrazionale –, non si può tuttavia affermare che Ueda abbia alle spalle una filmografia altrettanto riuscita quanto il suo omologo francese, che ha dato prova di essere ancora in gran forma a Venezia77 con il suo Mandibules (2020). Forse nella speranza di riconquistare la vetta calcando la mano sui toni esasperati del suo capolavoro, dopo One Cut of the Dead Ueda ha prodotto infatti nello stesso anno un paio di pellicole non esattamente brillanti quali Aesop’s Game (2019) e Special Actors (2019), entrambe partite da un’idea di fondo intrigante – rispettivamente, un’azienda per “cercatori di vendetta” e un attore in erba che sviene puntualmente quando si trova sotto pressione – ma che rivelano poi una certa stanchezza quando si tratta di sviluppare una struttura narrativa coerente al di là delle singole gag.

A ogni modo, non è questo il caso di Popran che, proprio ripartendo dalla semplicità dell’intreccio – le disavventure del protagonista assomigliano a delle quest videoludiche, il cui completamento darà accesso al livello successivo, fino alla prevedibile conclusione –, riesce a sfruttare appieno il potenziale comico del suo spunto iniziale. In questo senso, il contrasto tra lo stormo di falli volanti e l’ordinata, pudica società giapponese è gestito al meglio sia nei dialoghi – le continue reticenze e pause imbarazzanti – che nelle situazioni – uomini adulti che si aggirano per le strade con un retino, a caccia del loro “coso” – ed è di per sé sufficiente a scatenare le risate del pubblico, tanto che non c’è nemmeno bisogno di mostrare da vicino il popran per intrattenere lo spettatore fino all’ultimo minuto – cosa che non sarebbe stato comunque possibile fare, dato le stringenti leggi giapponesi sulla censura.

Popran

E proprio la censura – e più in generale lo spirito bacchettone dell’industria creativa nipponica – sembra essere l’obiettivo principale della satira di Ueda: Tatusya è infatti un manager arrogante che ha costruito il suo successo sulla digitalizzazione di fumetti del passato, disinteressato a promuovere nuovi autori e ben più aperto ai compromessi commerciali dell’ex-collega, che invece continua a promuovere autori locali come piccolo editore indipendente. Tuttavia, la situazione si capovolge quando Tatsuya perde la fonte della propria virilità, scoprendo che il segreto per “tenersela stretta” è rimanere fedeli a se stessi, tanto che alla fine deciderà di tornare sui propri passi e dare spazio a giovani autori – magari anche un po’ hentai, a quanto si intuisce.

Dopo Miike Takashi, che in As the Gods Will (2014) aveva dato sfogo a tutta la sua frustrazione nei confronti di un’industria che impone di mostrare sempre meno, nonostante il cinema giapponese sia fortemente debitore a generi come il gore e il pink per il suo successo internazionale, così Ueda si inserisce a sua volta nel solco degli spiriti liberi dell’Arcipelago, regalando al pubblico una pellicola “oscena” senza oscenità – così come As the Gods Will si configurava come un film splatter ma senza una goccia di sangue versato, rappresentato invece con delle biglie rosse – che riesce a mettere nel sacco le major produttrici di commedie all’acqua di rose, facendogli pure il verso.

Certo, siamo ancora distanti dal film della svolta, ma Ueda sembra essere tornato sulla buona strada, pronto a colpirci con la prossima trovata che, si spera, si accompagnerà anche alla prossima fase della sua maturazione autoriale.