L’accostamento tra il testo letterario burroughsiano e le strutture del cinema di Guadagnino risulta problematico anche solo da vagheggiare, eppure il più internazionale dei cineasti del mainstream italiano ha sempre tenuto Queer in considerazione privilegiata, vuoi per l’attaccamento emotivo al romanzo – letto a diciassette anni (ipse dixit), quando ancora Adelphi poteva permettersi di mandarlo in stampa col poi espunto titolo Checca –, vuoi per l’importanza che ricopre tout court la fabbricazione dell’immaginario adolescenziale nella sua opera. In concorso a Venezia 81 appena due anni dopo Bones and all, cui fa specie pensare per la nonchalance con la quale spalanca un abisso trai soggetti originari delle due trasposizioni.
Nella Città del Messico degli anni ’50, quando ancora non si chiamava Interzona e William Burroughs passava le giornate tra coca e morfina, tequila e mezcal, bar e locali, vestendo i panni di William Lee – Daniel Craig a pieno regime, nel bene e nel male – e svestendo chiunque gli capitasse a tiro, lo sguardo libidinoso del nostro cade sulla corporalità tornita di Eugene Allerton – un Drew Starkey senza i panni ma in panne –, giovanotto seducente e ambiguo per amore del quale vale la pena rischiare un viaggio un po’ reale e un po’ astrale alla ricerca della droga definitiva, lo Yage (l’ayahuasca), la sostanza in grado di dominare il regno del pensiero (lo vogliono anche il KGB e la CIA!) e consentire una comunicazione che non debba essere mediata dal virus del linguaggio (l’amore?).
Con maggiore deferenza rivolta al ricordo del sé adolescente che non alle intenzioni originali dell’uomo-gancio tra Beat Generation e prima fase del postmodernismo, Guadagnino a distanza di trentasette anni rilegge Queer come un dramma romantico centrato sul mistero della piena comprensione dell’altro, alla ricerca della totale compenetrazione con l’oggetto dello sguardo nel segno di una tonalità lisergica, in luogo della colluvie isterica e post-traumatica che ispirava la figura dell’alter ego Lee, triste, solitario y final, spezzato dal senso di colpa per l’omicidio della moglie nel cosplay erotico-alcolico di Guglielmo Tell, immerso in un mondo degradato e putrescente, esiliato fra gli esiliati, qui sostituito da un contesto faceto ingombrato dalla ricorrente presenza di Jason Schwartzman in un ruolo più buffo che comico. La sporcizia affiora nei dettagli ma della canicola purgatoriale non v’è traccia, per quanto il tempo sembri effettivamente non scorrere; il sesso è pulito, patinato, neanche troppo esplicito né provocatorio (la riproposizione della fellatio aurorale di Chiamami col tuo nome aggiunge qualcosa allo status di Craig, molto meno alla cadenza cortese del film).
Nonostante il radicale slittamento di paradigma nella costruzione del quadro principale, la prima metà dell’opera (coincidente con i primi due capitoli, suppergiù) è quella che funziona meglio, per merito anche se non innanzitutto della gargantuesca operazione produttiva in grado di ricostruire l’interezza del paesaggio burroughsiano par excellence in un set di Cinecittà, allo scopo di catturare l’errabondaggio estenuato di un William Lee alla ricerca di nuovi amori e nuovi corpi che non siano il suo, su cui invece vive il terrore dell’invecchiamento (parte integrante dell’economia del desiderio del personaggio, destinata a riaffiorare nel finale).
Senza che sia necessario richiamare il Cronenberg de Il pasto nudo (mentovare il quale dovrebbe essere il primo passo da evitare per approcciare il Queer di Guadagnino con la dignità che merita) e la scomposizione del tessuto narrativo della sua fenomenica, il regista palermitano decide di equilibrare le varie realtà, una tangibile e l’altra rappresentata, sovrapponendo il proprio immaginario a quello di partenza. La traduzione dell’aleatorismo dadaista di Burroughs viene affidata alla completa risemantizzazione della componente psichica del viaggio, usato dall’autore per proiettare la propria esperienza di interprete; Lee non guarda mai nel proprio inconscio ma in quello dell’autore, diventa l’alter ego di Luca Guadagnino e spia i ricordi confusi nella testa dell’ortonimo, maturati fino a diventare idee, concetti, ossessioni, poetica autoriale. Non a caso ricorre spesso un citazionismo pudico che non fa parte dell’abituale bagaglio postmod/avant-pop, da attribuirsi alla naturale implicitezza di chi ha introiettato quei codici nella propria prassi di significazione; baluginano qua e là Powell e Pressburger e contribuiscono anche Lisandro Alonso e David Lowery con un cameo ciascuno.
Queer è un gigantesco tributo del nostro al suo personalissimo imaginarium (e, perché no, forse all’idea in sé di imaginarium), alla dimensione immaginata che definisce la metà governata dal principio di piacere della persona. Il viaggio permane sdoppiato da più prospettive: circolare/verticale, fisico/psichico, terrestre/siderale; da un lato la violenza dell’attualità e dall’altro la potenza esistentiva. Il punto di contatto cardinale tra le due testualità è la disponibilità all’indagine del sovrasensibile, alla fuoriuscita del pensiero dal corpo testimoniata dalla sequenza chiave in cui William deborda dalla carne per accarezzare con dolcezza la schiena di Eugene.
Forse il vero finale del film prima di uno scadimento evidente nel terzo capitolo (il più lungo e forse essenziale nell’architettura generale) e nello sfocato epilogo, il momento delle coccole metafisiche corona la mezza parte di Queer dedicata alla celebrazione della veracità peculiare dei sogni e delle visioni o del saper plasmare con la mente, e apre allora le porte all’altra frazione, ampiamente problematica, dove il regista cerca di esporre la natura del suo intimo modo di pensare il cinema ricombinando la semasiologia di Burroughs per farla aderire alla propria, e finendo così per crollare miseramente sotto il peso della sua stessa ambizione. Mentre si perde nella foresta ancor più dei suoi protagonisti e s’alligna in luoghi anodini, impigliandosi in un nugolo di contraddizioni e cadute di stile tali da lambire il baratro e scoperchiarne le debolezze con inverecondia, il Queer di Guadagnino materializza sempre più la fantasmagorica eventualità del tanto paventato capolavoro mancato che si concretizza quando un autore scommette così tanto di se stesso in una delle sue opere (anche se qui è il mancato a primeggiare sul capolavoro, e non di poco).
Per quanto tuttavia stiamo parlando di un edificio crollato, alla fine della visione del quale si ha più che altro un ritratto dello schianto del Guadagnino autore contro i limiti del suo linguaggio (e consustanzialmente del suo mondo), se assistessimo soltanto a fallimenti così, fallire sarebbe forse un po’ più pregevole – o quantomeno rischieremmo quasi tutti a cuor leggero.