Dopo aver stupito Venezia con il gangster movie On the Job 2: The Missing 8 (2021), Erik Matti approda a Udine portando per la prima volta sul grande schermo il suo secondo progetto di quest’anno, ovvero l’horror a episodi Rabid, il quale, oltre a riconfermare l’abilità del regista nel maneggiare con perizia anche un genere a prima vista così distante dall’opera mostrata al Lido, racchiude un’amara quanto lucida riflessione sul periodo pandemico che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Durante il primo, interminabile lockdown, un’anziana apparentemente indifesa chiede asilo a una famiglia dell’alta borghesia, salvo poi ridurne in schiavitù i membri grazie alla magia nera. Nel secondo episodio, un marito amorevole accudisce con zelo la sua sposa cadavere – o meglio, non-morta –, nella speranza che la cura consigliatagli possa ricondurre la sua amata alla ragione. Segue un’infermiera che, dopo aver staccato dal turno di notte, si rende conto di non poter uscire dall’ospedale, perché perseguitata dallo spirito di una paziente covid morta in solitudine. Infine, tocca a una madre alla ricerca di soldi facili, che decide di vendere online i suoi piatti fatti in casa affidandosi a una misteriosa ricetta segreta trovata in rete, che provocherà dipendenza e altri strani effetti collaterali.
Distribuito in esclusiva su Upstream, il servizio di streaming filippino fondato dallo stesso Matti e dal produttore Dondon Monteverde, Rabid porta la firma di Michiko Yamamoto alla sceneggiatura – compagna di vita dell’autore, al suo fianco tra gli altri nel primo On the Job (2013) e in Honor Thy Father (2015), senza contare le collaborazioni con altri esponenti di spicco del nuovo cinema filippino, come con Lav Diaz in Norte – The End of History (2013) –, affiancata dalle autrici Mary Rose Colindres e Leovic Arceta rispettivamente per il terzo e il quarto episodio, configurandosi come una polifonia che, nonostante i toni anche molto diversi tra loro – in particolare, Non c’è niente di meglio della carne adotta uno stile più cupo e minimlaista –, rivela una coerenza d’insieme nel volere mettere a nudo l’ipocrisia dimostrata dalla società filippina – ma non è difficile riconoscervi una valenza globale – in quello che è stato il più grande trauma collettivo degli ultimi cinquant’anni.
Fondato sul rovesciamento paradossale dei kawanggawa – un genere di racconto popolare moraleggiante, incentrato su atti di carità incondizionati verso i bisognosi –, Rabid fa esattamente l’opposto di quanto ci si aspetterebbe da un film post-pandemico, ovvero, anziché battere una metaforica pacca sulla spalla dello spettatore, congratulandosi per la sua umanità e proponendogli una storia edificante dal sapore ottimistico, esso procede a esibire i difetti che l’emergenza sanitaria ha invece contribuito a esasperare: Siamo gli unici sfortunati? (episodio I) denuncia l’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri, e della crescente indifferenza dei primi che alimenta l’odio di classe; Non c’è niente di meglio della carne (episodio II) si incentra sull’attaccamento morboso e sulla spinta a conformarsi, che costringe anche i superstiti a farsi zombi; Shit Happens (episodio III) demolisce la narrativa celebrativa delle professioni sanitarie, riportando l’attenzione sul fatto che considerare medici e infermieri alla stregua di supereroi significa anche negare la loro umanità, e dunque la reale portata dei loro sforzi; infine, HM? (episodio IV) è la rappresentazione plastica dell’abuso dei social media, sia per quanto riguarda la dipendenza da questi generata che per la natura malsana del bisogno di validazione che a essi s’accompagna.
In aggiunta, in controtendenza rispetto a certi autori che, a livello internazionale, hanno cercato in anni recenti di smarcare l’horror dalle sue convenzioni di genere, magari con lo scopo dichiarato di ristabilirne la dignità – cosa peraltro mai messa in discussione da chi il genere lo apprezza –, Rabid si contraddistingue per un production design e una direzione artistica dal sapore artigianale ma mai amatoriale, frutto anzi di un attento studio delle aspettative del target spettatoriale, desideroso di una dose abbondante di effetti speciali vecchio stile e location archetipiche – la grande villa, l’ospedale, il rifugio sotterraneo – che riportassero leggermente indietro le lancette dell’orologio rispetto alla maggior parte delle produzioni coeve, dove la sovrabbondanza di found footage e telefonini di ultima generazione – ormai diventati quasi una costante da The Blair Witch Project (1999) in poi – hanno stancato gli estimatori più longevi del cinema dell’orrore.
Come suggerito dal poster del film, Rabid è in buona sostanza una matrioska della depravazione, un piccolo gioiello orrorifico a episodi che, pur senza mirabili incastri tra un compartimento e l’altro della narrazione, regala al pubblico un intrattenimento genuino e non privo di implicazioni sociali, ulteriore prova della cinefilia universale di Erik Matti.