Partendo da una monumentale mole di documenti, filmati e materiali d’archivio e con un lavoro che ha richiesto anni di ricerca accurata, Andres Veiel porta a Venezia 81, fuori concorso, Riefenstahl, potente documentario sulla berlinese Leni Riefenstahl, la “regista del nazismo”, la cineasta di Il trionfo della volontà e di Olympia, manifesti propagandistici dell’estetica e ideologia nazista e del culto del corpo, legata ad Adolf Hitler, a Joseph Goebbels e all’“architetto del diavolo” Albert Speer. Legami che Riefenstahl ha sempre e ostinatamente negato, professandosi lontana dalla politica e del tutto estranea – e inconsapevole – alle atrocità perpetrate dal regime nazista.
Il documentario di Andres Veiel indaga sulla figura di Riefenstahl con un lavoro magistrale che sfrutta come strumento di analisi e riflessione un’arte in cui la regista era particolarmente abile: il montaggio. Leni Riefenstahl è stata una pioniera – donna acclamata e di spicco in un mondo di uomini -, un’artista geniale o la mera latrice di un messaggio propagandistico? Qual era la sua posizione nei confronti del regime, di Adolf Hitler e dei gerarchi nazisti? Era davvero inconsapevole dell’olocausto? E ancora, è stata davvero vittima della sua stessa storia, come ha sempre sostenuto attirandosi la solidarietà di molti concittadini tedeschi che hanno creduto alle sue parole?
Il film di Veiel mette al centro queste e altre domande che da sempre hanno accompagnato le riflessioni sulla figura, indubbiamente affascinante e largamente celebrata, di Leni Riefenstahl. E lo fa affidandosi prevalentemente al montaggio, che contrappone in maniera tanto rivelatrice quanto dissonante e inquietante le parole e le immagini, lasciando che i meccanismi di rimozione che Riefenstahl ha sempre messo in atto emergano con lampante chiarezza (“Ricordare qualcosa significa lasciare che qualcos’altro cada nell’oblio”, racconta in un paio di passaggi la voce narrante che ci accompagna e guida lungo la visione, sottolineando proprio la dimensione della negazione). Lasciando che l’alone di “mito” che ha a lungo accompagnato la regista, immagine dopo immagine, si sgretoli.