Michele Santoro, a 5 anni dall’ultima apparizione in RAI, confeziona un piccolo documentario, sul fenomeno che Roberto Saviano definirà come “la paranza dei bambini” a Napoli.

Presentato alla 73esima Mostra di Venezia, Robinù è un documentario che racconta, ancora una volta, il fenomeno della criminalità napoletana. Questa volta però viene analizzata sì dal punto di vista della strada, ma concentrandosi sul fenomeno della criminalità infantile.

Ma la “paranza” non è solo questo, non è uno strato subordinato di ragazzini che si occupano della “manovalanza criminale”, ma un autentico corpo mafioso quasi a sé stante, con i suoi capi e le sue gerarchie. Santoro riesce, attraverso interviste serrate, silenti e lunghe inquadrature a camera fissa, a ricostruire un mondo estremamente decaduto, tra madri e moglie costrette a spacciare, prostituirsi, svolgere il ruolo di parcheggiatrici abusive, per mantenersi dopo l’incarcerazione dei figli o dei mariti. Tutto questo sullo sfondo della galera di Poggioreale, un mostro di mura che accoglie per la gran parte ragazzi minorenni o appena maggiorenni, le cui spalle portano già il peso di una pena più lunga, in anni, della loro età effettiva.

Tra una cruda inquadratura e l’altra, tra una madre che piange il proprio figlio e non sa se biasimare lui o quel grande sistema che è la criminalità di Napoli e quella che piange con nostalgia il marito, prima rispettato e amato boss della zona, tra un ragazzo che parla del Kalashnikov come un giocattolo e quello che idolatra senza limiti i criminali di quartiere più famosi o ricordati, Robinù ci racconta la nuova ed emergente figura all’interno della mafia, il bambino killer che non sa parlare italiano, con i denti, i capelli e le unghie già devastati dalla droga, consapevole di dover passare per i crimini più gravi fin da subito, in modo da finire in carcere il prima possibile e uscire ancora giovane.

Robinù 2Dal lato più narrativo, Santoro si concentra, all’interno della natura corale e generale del documentario, sulle gesta di 4 fratelli, in particolare sulla figura di Michele, giovane idolo della zona che viene intervistato a Poggioreale, nonché il Robin Hood/Robinù del titolo. Soprannominato così per la sua abitudine generosa di aiutare i poveri di quartiere nel suo ruolo di “piccolo boss”, Michele, come l’eroe inglese, è tuttora idolatrato dagli strati bassi della società ed è felice della sua posizione, secondo lui prova del fatto che stava facendo del bene. Gli altri due fratelli incarcerati condividono la sua linea di pensiero, al contrario del più giovane della famiglia, andato (o scappato, come dice lui stesso) in Francia come pizzaiolo, portandosi ancora dietro il peso di una famiglia che lo ha ripudiato per la sua scelta (a Napoli) e quello di uno stereotipo troppo vero (all’estero).

Ora, il documentario in sé funziona, l’unico problema è la mancanza di un punto centrale, di un’idea che funga da nucleo e da base per l’opera stessa. Al di là della capacità informativa, Robinù risente di un’eccessiva generalità, che a lungo andare e appesantisce la visione e ne rende sfuggente il senso complessivo. Il documentario racconta una di quelle classiche realtà che forse abbiamo bisogno di ricordarci continuamente, ma al solo gesto di mostrarla non si può attribuire un’importanza o una potenza che tecnicamente manca.

In conclusione, Robinù è certo apprezzabile per i suoi intenti, ma non altrettanto nel risultato finale, ovvero un documentario ben realizzato tutto sommato, ma che manca di una profondità sufficiente per raccontare la realtà inquadrata, per rendere memorabile l’opera.

Titolo originale: Robinù
Nazione: Italia
Anno: 2016
Genere: Documentario
Durata: 97
Regia: Michele Santoro

Cast: /

Data di uscita: Venezia 73

 

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