Presentato Fuori Concorso nella sottosezione Non Fiction, Ryuichi Sakamoto | Opus rappresenta l’ultimo lascito al mondo del leggendario compositore giapponese, opera-testamento nel vero senso del termine curata dalle sapienti mani del filmmaker e artista – nonché figlio dell’estinto – Neo Sora, un canto del cigno in bianco e nero, ripreso a distanza ravvicinata e senza soluzione di continuità che provvede un punto di vista inedito sulle capacità performative del maestro. Resta solo il dubbio, a margine, di come catalogarlo, aprendo la questione del ruolo dei festival del cinema di farsi cassa di risonanza per l’arte tutta – anche a costo di sconfinare oltre la Settima.

La malattia di Sakamoto, che nella scorsa sortita sul grande schermo – il documentario di Stephen Nomura Schible Ryuichi Sakamoto: Coda (2017), anch’esso Fuori Concorso a Venezia74 – sembrava non averlo indebolito, portandolo invece a sfidare il proprio limite fisico e intellettuale nel confrontarsi con la tragedia del terremoto del Tōhoku del 2011, piuttosto che a ricercare la purezza del suono dei ghiacciai dell’artico, in Ryuichi Sakamoto | Opus questa costituisce purtroppo un’amara consapevolezza che il pubblico, al pari del regista e di tutte le maestranze coinvolte, non può permettersi di ignorare, configurandosi come il secondo leitmotiv della pellicola, contraltare ideale dell’esecuzione finale – quella sì, perfetta e immortale – che il montaggio a cura di Kawakami Takuya – già al fianco di Neo Sora nel suo documentario indipendente Ainu neno an Ainu (2021), incentrato sugli sforzi di una giovane ricercatrice per salvare il patrimonio culturale della minoranza Ainu cui appartiene – si premura di estrapolare dal tempo, dando al silenzio soltanto qualche secondo di tempo per scandire i brani eseguiti dal maestro.

Ed è proprio dalla definizione di “perfezione”, nel suo significato etimologico, che Ryūichi Sakamoto e lo staff al suo fianco sono ripartiti per dare senso a questa ultima fatica, facendo tesoro dei suoi ultimi giorni di relativo benessere nella prima metà del 2022, quando i concerti ormai erano fuori questione, ma la pratica quotidiana non lo era affatto. Girato interamente nella sala di registrazione 509 degli NHK Studios di Tokyo – a detta dello stesso Sakamoto, il luogo con la migliore acustica di tutto il Giappone –, la fotografia chiaroscurale curata dal DOP Bill Kirstein è costruita sull’idea di un uso naturalistico dell’ombra, a simulare il passaggio dall’alba al tramonto, e quindi alla notte, come se si dovesse assistere a un unico, lungo concerto, che si consuma nell’arco di un giornata. Il tutto, proponendosi di ripercorrere le tappe della carriera artistica del soggetto con una selezione di 20 brani – curata dallo stesso Sakamoto, e la cui successione obbedisce alla logica crepuscolare della fotografia – che va dagli esordi con gli YMO, passando per le colonne sonore rimaste nella storia – su tutte, quelle prodotte nel corso del lungo sodalizio con Bertolucci, foriero del riconoscimento internazionale culminato con l’Oscar per L’ultimo imperatore nell’88 – fino agli ultimi album sperimentali.

In poco più di un’ora e mezza, Ryuichi Sakamoto | Opus chiude così il cerchio, riportandoci appunto al senso della perfezione, a ciò che desta ammirazione nel suo essere finito, compiuto, concluso in se stesso e per se stesso, ultima speculazione che Sakamoto sembra essersi concesso sulla natura illusoria e puramente normativa del tempo – che dalla diagnosi di cancro nel 2014 non ha mai smesso di ossessionarlo, influenzando i suoi componimenti più tardi.

Né documentario né video essay, né video musicale né omaggio in musica, Ryuichi Sakamoto | Opus fatica a trovare una sua collocazione all’interno della sottosezione Non Fiction, la cui ambigua denominazione certo fa buon gioco a opere di questo tipo, aprendo uno spiraglio per la videoarte anche nel comparto della Biennale che di videoarte non dovrebbe volerne sapere – almeno in teoria. Ma dato il calibro di chi ci ha lasciato, questa volta forse non è il caso di fare i difficili, pur consapevoli che il festival veneziano solitamente non perdona questo genere di sconfinamenti.