Laurence, giovane madre di origini senegalesi, ammette di aver ucciso la figlia di quindici mesi. Per seguire il processo alla donna e trarne materia letteraria, Rama, scrittrice al suo secondo romanzo, si reca a Saint Omer. Durante il dibattimento però, la ricostruzione dei fatti e della vita dell’imputata lentamente mettono in crisi l’idea della promettente autrice di dedicarsi alla scrittura di una Medea contemporanea. Mentre il processo si avvia alla conclusione, l’assurdità del figlicidio compiuto da Laurence solleva implicazioni sempre più profonde, arrivando a far sentire, più che a capire, a Rama, alla Corte, ai testimoni e al pubblico in aula, ulteriori sfaccettature del mondo della maternità.
Rigoroso e ostico, con lunghe inquadrature statiche e una narrazione che si sviluppa per accumulo, il nuovo film dell’apprezzata documentarista francese Alice Diop – il primo di finzione – è invece tutt’altro che algido. Partendo da un atto inconcepibile, il più crudele dei crimini, ispirato a fatti realmente accaduti, con pudicizia e attenzione Diop indaga l’esperienza materna nella sua concezione più ancestrale.
Lontano dalla spettacolarizzazione del gesto in sé, Saint Omer evita con grazia le trappole della retorica e si concentra sull’insondabile tòpos della maternità di cui, allo stesso tempo, conosciamo tutti i processi biologici senza riuscire però mai a comprenderne totalmente la portata. La sensibilità della regista, anche grazie all’esperienza nel documentario, permette di evitare uno sguardo giudicante, immergendo così lo spettatore nella storia fino alla commovente sequenza finale.
Senza attribuire la causa della violenza a fattori specifici, escludendo la razionalità senza la quale diventa difficile persino immaginare come nascano episodi simili, ma chiamando in causa stregonerie e rituali mistici, Diop riesce ad andare ancora più a fondo in quei territori emotivi in cui la bussola morale, sociale e giuridica diventa insufficiente.
Senza sbattere il mostro in prima pagina, la regista prova a sondare l’insondabile con un film difficile e crudo, sostenuto dall’ottima interpretazione delle due protagoniste, sempre all’altezza di un racconto che riesce a contemperare singolarità e visione universale.
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