Presentato Fuori Concorso, Sembra mio figlio segna il ritorno al cinema di finzione di Costanza Quatriglio – L’isola (2003), 87 ore (2015) –, in cui la vicenda personale di emigrazione e riscatto di due hazara è il punto di partenza per raccontare l’orrore, spesso non debitamente attenzionato dai media, dello sterminio di questo popolo in Afghanistan.
Abbandonata la loro terra ancora bambini per sfuggire alle persecuzioni dei talebani, Ismail – Basir Ahang – e suo fratello maggiore Hassan – Dawood Yousefi – sono in Italia da diversi anni, dove nel frattempo hanno messo su una piccola attività. La madre e alcuni parenti si trovano in Afghanistan, e da qualche tempo la prima si rifiuta di riconoscerli come suoi figli. Distrutto dal dolore, Ismail decide di tornare a casa a rischio della propria vita per ricongiungersi con quel che resta della sua famiglia.
In un clima come quello odierno, in cui è invalsa la tendenza a demonizzare lo straniero e a minimizzare la situazione disastrosa in cui versa un intero quadrante del mondo, Sembra mio figlio si pone controcorrente senza mezzi termini. Gli Hazara sono relativamente pochi e poco – purtroppo – si parla di loro nel dibattito pubblico, ma sono a oggi una delle etnie più perseguitate. La situazione in Afghanistan e Pakistan è esplosa nei primi del 2000, con l’inizio di un genocidio sistematico a opera dei gruppi sunniti radicali: è avvenuta così una vera e propria diaspora, con migliaia di profughi – tra cui diversi minori non accompagnati – costretti a cercare rifugio negli Stati limitrofi o in Europa.
Una storia (vera) terribile, eppure Quatriglio non cede alla tentazione di fare la morale allo spettatore. Sembra mio figlio è un film che denota la consapevolezza che l’autrice ha del mezzo, la quale contamina i registri lasciando trasparire la propria vocazione documentaristica. Alle sequenze in Italia, contraddistinte da piani ravvicinati e da un montaggio più ottemperante alla buona prassi della continuity, si contrappone la sezione del ritorno in patria di Ismail, dove invece il campo lungo e le suggestioni paesaggistico-pittoriche dominano.
Ma tale cesura non rappresenta soluzione di continuità: i toni su cui è giocata l’interpretazione di Ahang e comprimari contribuiscono a far percepire la pellicola come una poesia sostenuta da un disegno unitario, le cui stanze contemplano aspetti diversi ma complementari (nostalgia per il passato/aspettative per il futuro, amore materno/amore erotico) della vita. I segni della guerra, tangibili e non, sono citati ma non declamati, mostrati ma non esibiti: per esempio, veniamo a sapere che Hassan ha subìto orribili torture dai talebani, ma queste non vengono specificate; quando Ismail arriva al confine, trova lungo la strada dei cadaveri di alcuni suoi fratelli, senza che ci venga fatta vedere l’esecuzione.
Proprio per questa grande sobrietà, Sembra mio figlio non è un buon film in virtù solo di quello che dice: insegna senza essere didascalico, commuove senza essere svenevole ed è una bella novità nel panorama nostrano, in grado di parlare a qualsiasi tipo di pubblico. Ci auguriamo riceva una distribuzione adeguata nelle sale una volta uscito dal circuito festivaliero.