Ogni Paese ha le sue dolorose storie di persecuzione e oppressione, che quando finalmente vengono alla luce diventano pregevoli e utili film: dall’italiano “Rapito”, di Marco Bellocchio; all’australiano “La generazione rubata”, di Philip Noyce; a “Lubo”, di Giorgio Diritti sugli jenisch svizzeri.
Dall’Irlanda giunse nel 2013 Philomena, di Stephen Frears, che denunciò le atrocità commesse nelle “Case Magdalene” fin dal 1765. Erano monasteri cattolici che operavano sfruttando giovinette “colpevoli” di gravidanze fuori dal matrimonio e dei loro bambini. L’ultima “casa” fu chiusa solo ne 1996.
Con questa pellicola, il regista belga Tim Mielants ci porta alla metà degli anni Ottanta del Novecento e di nuovo nella stessa Irlanda cattolica di Philomena, guardando però un po’ anche alle colpe di comunità locali, che sapevano ma preferirono minimizzare, per mancanza di coraggio, di voglia o di interesse a denunciare quelle che erano considerate solo “piccole cose”.
Il protagonista è un uomo sulla quarantina, Bill (il bravo Cillian Murphy, già in Hoppenheimer), un carbonaio che lavora duramente per mantenere le sue amatissime 5 figlie e la moglie, una efficace Eileen Walsh.
Bill è gentile, timido, generoso. A sua volta figlio di una ragazza madre prematuramente morta, è stato allevato dalla facoltosa signora dove la madre prestava servizio e, almeno in parte, aveva potuto godere di un certo benessere e dell’affetto del fattore, già innamorato della madre, che si era preso cura del piccolo orfano. Il suo doloroso passato lo ha reso però sensibile (per di più nell’imminenza delle feste natalizie) alle sofferenze altrui e quando, nel corso dei suoi giri di distribuzione del carbone, vede e sente cose terribili, non può tirarsi indietro. Contro il parere dei conoscenti, e persino della sua stessa moglie, Bill interviene, spezzando, almeno per una volta, quel tabu omertoso e codardo che proteggeva le temutissime e perfide suore.
Basato sull’omonimo racconto di Claire Keegan (“Foster” e “The Quiet Girl”), il film è formalmente perfetto nel suo mostrare una “società cristiana disfuzionale”, come la definisce Murphy stesso, a sua volta irlandese di Cork. Una disfunzionalità che deve aver toccato nei secoli ben numerose altre comunità religiose in Europa e che si auspica continuino ad essere denunciate anche dal cinema con altrettanta lucidità (si veda per esempio il film sugli abusi sessuali “Grazie a Dio”, di François Ozon, del 2019).
Questa pellicola di severo impegno nel 2024 ha inaugurato a Berlino il 74° festival del cinema, nel quale è stata presentata in concorso.
Emily Watson (la terribile madre superiora) ha ottenuto l’Orso d’Argento per la migliore interpretazione in ruolo non protagonista.