“Sophia Antipolis” di Virgil Vernier

Anti polis

sophia antipolis

Farraginoso più che ermetico, Sophia Antipolis di Virgil Vernier porta alle sue estreme conseguenze l’idea di fantascienza come riflessione sul presente, spogliando l’etichetta dei suoi attributi immaginifici, politici, ansiogeni, in nome di una non ben precisata esigenza autoriale.

In un parco tecnologico sulla riviera francese le vite di cinque estranei si scoprono collegate alla scomparsa di una ragazza di nome Sophia. KimDewi Kunetz –, vedova, si unisce a una setta religiosa dove fa la conoscenza di SamanthaSandra Poitoux –, madre cinquantenne patita delle teorie del complotto. Nel mentre, l’ex militare Tarik – il rapper Bruck – ha iniziato il suo nuovo lavoro come vigilante, scoprendo il lato oscuro della comunità che è pagato per proteggere. Sullo sfondo resta il pellegrinaggio di LenaLilith Grasmug –, che di Sophia era la migliore amica.

sophia antipolis

Con un approccio documentaristico al montaggio e alla composizione delle inquadrature e girando in 16mm con rarissimi movimenti di macchina, Vernier riconferma lo sguardo adottato in Mercuriales (2014) per condurre un’analisi sociologica dei nostri tempi, collocandosi in un contesto che ne sublima fobie e aspirazioni: l’enclave di Sophia Antipolis, creata tra gli anni Settanta e Ottanta sulla falsariga della Silicon Valley per ospitare i quartier generali delle maggiori aziende europee del settore informatico e farmaceutico.

Sesso, spiritualità, sicurezza: questi i bisogni primari dell’essere umano 2.0. Per raccontarli, l’autore parcellizza la narrazione fino a creare degli episodi quasi del tutto impermeabili tra loro: le (belle) ragazze che ricorrono alla chirurgia plastica senza una vera motivazione; la moglie-trofeo che senza marito perde la bussola e si getta tra le braccia del primo santone che trova; gli uomini della security che abusano del proprio potere con soggetti in posizione di inferiorità.

Sophia Antipolis dovrebbe essere governata con sapienza (sophia), facendo appello alla razionalità che è prerogativa delle scienze, ma si rivela invece una anti polis, una realtà circoscritta e autonoma che però è tutto meno che una città: all’interno del grande complesso templare della modernità e del capitalismo infatti non c’è spazio per il senso civico, la critica, il confronto, la collettività. I suoi abitanti, provenienti da nazioni diverse e che non possiedono una lingua comune, vivono confinati nelle proprie case e micro realtà, si tratti di una comunità religiosa o di un corpo paramilitare.

sophia antipolis

Riflessioni, queste, che l’autore suggerisce soltanto, senza premurarsi di lasciare indizi di ordine spaziotemporale – intuiamo soltanto che la situazione internazionale è critica più o meno come quella odierna – o dare forma definita alle psicosi dei suoi personaggi. Ed è questo lasciare a briglia sciolta il film a comprometterlo. Le conclusioni cui possiamo arrivare, come si può leggere nei paragrafi incipitari, non sono affatto scontate, ma lo sforzo ermeneutico ricade interamente sullo spettatore, che si ritrova investito di un potere che il cinema solo di rado e dietro certe condizioni – quali quelle di Sophia Antipolis non sono – concede. Si tratta insomma di un film interessante solo se lo si vuole leggere come tale, con il rischio di attribuire al regista più – o viceversa meno – di quanto non fosse nelle sue corde.

Pellicola di speculazione allo stato puro, Sophia Antipolis è di suo piuttosto anonima: una caratteristica comune, purtroppo, a diversi film presentati nella sezione Cineasti del Presente di quest’edizione.