Venerdì 19 Luglio 2024 gli spettatori dell’Edera Film Festival di Treviso assistono alla proiezione di “Sparare alle angurie“, cortometraggio di diploma di Antonio Donato: un frizzante, fresco e delicato tributo alla bellezza della vulnerabilità maschile.

Il giovane regista non si fa remore a palesare l’influenza del cinema eccentrico di Wes Anderson, avviando la sua pellicola, tutta verdi e azzurri pastello, con una raffinata inquadratura obliqua su due ragazzi che giocano a racchettoni seduti su davanzali vicini, seguita da un quadro frontale ripreso a livello pavimento su un uomo che gioca a minigolf dentro casa.

É estate e ci troviamo in un resort di lusso in Sardegna, apparentemente frequentato solo da uomini atletici che si cimentano senza tregua nei più svariati sport; ma poi ecco che appare Federico, un giovane molto diverso da tutti gli altri. Egli infatti ci viene presentato immobile, il volto nascosto dietro le scure lenti di un binocolo (“Moonrise Kingdom” ha lasciato il segno) attraverso le quali osserva quello sfoggio di atletismo e “maschia” forza fisica. Quando egli abbassa l’oggetto ne scopriamo il volto, grandi occhi dalle palpebre pesanti in un ovale delicato, e capiamo subito quanto egli si senta alieno, estraneo a quel mondo.

Federico è in vacanza con il fratello maggiore e con il padre Aurelio, uomo tutto d’un pezzo dal quale si sente continuamente valutato con severità. Ne ricava un’ansia pervasiva che lo condiziona accentuando la sua goffaggine; ma egli non pensa mai per un istante di tradire la sua natura riflessiva aderendo all’ideale di mascolinità instancabile che sembra essere l’unico degno di stima: il protagonista guarda sempre, placido, in disparte, quel mondo colorato, quei corpi in perenne movimento, e lo spettatore osserva assieme a lui, cogliendo con ironico divertimento il ridicolo di quello sfoggio di irrealistica invulnerabilità. Quando un’amorevole zia giunge in visita il ragazzo sembra rinfrancato dalla sua affettuosa energia femminile. Così una sera, mentre tutti e quattro guardano la tv rilassati sul divano, Federico ricerca uno scambio di tenerezze con il padre, che si irrigidisce erigendo un muro ancor più alto.

La crepa tra i due sembra insanabile ma un invito a cena da parte di una famiglia di vicini tedeschi cambia le carte in tavola. La regia suggerisce l’importanza di ciò che sta per accadere mostrandoci in ralenty il tragitto dei tre uomini verso la villa degli ospiti. La delusione iniziale è inevitabile: anche loro sono degli snob con il mito della performance e li mettono a disagio chiedendogli di presentarsi, in piedi, a turno. Federico è pietrificato, ma ecco che il padre gli viene inaspettatamente incontro: parla in un inglese fluido del suo lavoro e dell’orgoglio per i due figli ma poi, nel ricordare con amore la moglie scomparsa, viene travolto dall’emozione, incespica, balbetta, stringe senza vergogna la spalla di un Federico che stupito e commosso guarda il padre con occhi tutti nuovi.

Sul finale il corto, in accordo con la felice scoperta del protagonista, abbandona la patina ironico-malinconica per lasciarsi andare ad una vitalità allegra e divertita evidenziata da una colonna sonora che si lascia alle spalle le sonorità jazz esplodendo nell’elettropop anni ‘80. Con una chiusura circolare, che ripropone l’insolita partita a racchettoni dell’avvio aggiungendo un ultimo quadro in cui Aurelio, di spalle, guarda immobile il mare, il regista ci dice che non è possibile sradicare in un batter d’occhio una solida cultura frutto del patriarcato, ma che un uomo che accetta e manifesta le proprie fragilità non è in alcun modo un uomo debole.