Era morto Stalin! Gli uni furono presi da un sentimento di dolore […] Era morto il grande Dio, l’idolo del ventesimo secolo, e le donne singhiozzavano…Altri vennero presi da un senso di felicità. Le campagne, che soffocavano sotto il peso di piombo del pugno staliniano, tirarono un sospiro di sollievo. Il giubilo invase milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager.

Vasilij Grossman, Tutto scorre

Stalin è morto, davanti al suo feretro vediamo sfilare migliaia di cittadini sovietici contriti, per tutto il paese il lutto colpisce milioni di abitanti come una scure gelida, la sua bara viene portata solennemente sulla Piazza Rossa dai suoi collaboratori, sul Mausoleo di Lenin Berija, Malenkov e Chruscev leggono i testi di commiato, al rito funebre partecipano Togliatti, Gottwald, Dolores Ibarruri e altri capi comunisti mondiali. La guida dell’URSS viene imbalsamata e messa accanto al corpo di Lenin, ma ci rimarrà non per molto….

Chi scrive segue da anni con attenzione e interesse il lavoro multiforme di Loznica; chi scrive in generale apprezza molto il suo operato e le sue posizioni, e sebbene ritenga che ultimamente l’autore ucraino abbia acquistato una mano leggermente pesante (si pensi a Donbass e a certi suoi eccessi grotteschi), lo considera un regista importante, uno dei punti di riferimento per l’analisi documentale della storia sovietica e post-sovietica (si pensi ai bellissimi Victory Day e The Event, ma anche al poderoso Majdan); chi scrive, infine, non può però che confessare candidamente di non aver capito bene il senso di questa ultima fatica del buon Sergej.

Cerchiamo di spiegare il perché.

Una premessa metodologica: nel suo ottimo Cinema e storia. Immagine d’archivio e uso politico nel cinema documentario (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2016) Federico Rossin fa una tassonomia dei possibili utilizzi politici dei filmati d’archivio, e definisce “Film di compilazione” un «Film di montaggio che integra piuttosto acriticamente in sé contenuto cinematografico che proviene da opere anteriori. Il film di compilazione funziona secondo il principio per cui si può utilizzare l’immagine cinematografica come prova fattuale, quasi fosse un neutro reperto giuridico a carico del passato che permette di ricostruirlo. Il film di compilazione si sviluppa secondo l’idea del realismo ontologico dell’immagine cinematografica proveniente dall’archivio». Ecco, crediamo, anzi temiamo che Sergej Loznica, con questo suo ultimo Funerali di Stato abbia fatto né più né meno che un film compilativo, e ce lo conferma sempre Rossin quando egli spiega (diremmo noi, mette in guardia) che «il film non può essere più proiettato se non ad un pubblico già informato e colto, spariti il contesto e una conoscenza di base degli eventi. La retorica della propaganda non viene più intaccata dalla strategia di accumulo, ma finisce anzi per ritrovare sarcasticamente una sua triste efficacia».

Stalin morì nei primi giorni di marzo del 1953. Su di lui sono stati girati ovviamente caterve di film celebrativi, rappresentanti del peggior didascalismo sovietico, servili cascami da culto della personalità, ma anche opere più interessanti, come Stalin (1992) girato per la HBO da Ivan Passer, regista cecoslovacco della nova vlna, costretto all’emigrazione dall’invasione sovietica di Praga che assegnò il ruolo del politico georgiano a Robert Duvall (!), e il nostro preferito (appunto perché l’assassino schiatta quasi subito, senza alcuna solennità celebrativa), ossia The Death of Stalin di Armando Iannucci (Morto Stalin se ne fa un altro), che ovviamente è stato coperto di critiche da nostalgici filo-sovietici, stalinisti fuori tempo massimo e gente con poco senso dell’ironia ed elevato spirito di lesa maestà verso i dittatori, ed è, ca va sans dire, vietato in Russia. Per non parlare di opere che toccano l’assassino seriale georgiano per vie traverse, come Chrustaljov, mashinu! (1998) di Aleksej German senior e Il proiezionista (1991) di Konchalovskij. Sui funerali, poi, che sono il tema di questo lavoro d’archivio di Loznica, esiste anche l’istituzionale Il solenne saluto (in originale Velikoe proscanie, diretto da Gerasimov, Kopalin e altri): si tratta del film ufficiale del 1953 che doveva celebrare appunto la ormai spenta stella dellа grande guida e che Loznica usa qui largamente come punto di partenza. Vi è inoltre un film di finzione, una delle poche prove registiche del poeta Evgenij Evtushenko, dal semplice titolo I funerali di Stalin.

Nel 2019, dopo aver più volte lavorato in modo intelligente e sensato con i documenti d’archivio (si vedano i titoli succitati), ma anche dopo aver licenziato The Trial, sinceramente indigesto per la sua lunghezza e la pedissequa riproposizione integrale del processo in oggetto, Loznica pensa bene di ricucire, senza un minimo commento e senza una didascalia illustrativa, molti materiali filmati raffiguranti il diffuso sentimento ufficiale di lutto e vuoto cosmico che dovevano essere l’unica variante accettabile nell’Unione Sovietica del 1953, e ci presenta una sorta di celebrazione muta di un teatro dell’assurdo di cui non sentivamo la mancanza.

Ripetiamo: facendo largo utilizzo delle riprese ufficiali commissionate dal governo e del contrito commento d’accompagnamento, estrapolati dal già menzionato Il solenne saluto, utilizzando la stessa colonna sonora di quel filmato ufficiale celebrativo, Loznica ci propone una full immersion in un momento storico che si intenderebbe essere rappresentato in modo “neutrale”, ma che cade proprio su questa mal compresa idea di “inoltro conforme”. Non neghiamo che il lavoro di restauro e di ripulitura della traccia audio siano notevoli, siamo ben consapevoli che solo una certosina ricerca d’archivio abbia potuto permettere il ritrovamento e l’aggiunta del minutaggio ulteriore, costituito per lo più da immagini di costernazione di massa provenienti dai mille angoli dell’Unione Sovietica in cui lavoratori e cittadini piangevano, volenti o nolenti, la scomparsa del segretario generale. Ma è quello che manca a stridere: Loznica limita a tre cartelli di commento finale la menzione dei milioni di vittime che il sistema staliniano aveva causato. Essendo basato solo su riprese ufficiali e filogovernative, manca ovviamente qualsiasi riferimento alle centinaia di vittime rimaste schiacciate dalla calca durante il giorno dei funerali, di modo che ogni possibile valutazione del testo filmico è lasciata completamente alla sapienza e alle conoscenze pregresse dello spettatore, in una sorta di grado zero della para-testualità (di meta-testualità manco a parlarne). In altre parole: se l’ipotetico marziano di turno vedesse il film del regista ucraino, non potrebbe che uscire dalla proiezione più che convinto dell’assoluta santità di Iosif Vissarionovic; gli spettatori stalinisti si sentiranno gonfiare il petto a sentire la prosopopea preconciliare e antidiluviana di questo pistolotto in Sovietcolor, e un ipotetico studente digiuno di storia (ci si perdoni la deviazione professionale) dovrebbe essere messo in guardia e accompagnato obbligatoriamente da un corso accelerato di letteratura sul lager (Grossman e Salamov sopra tutti, Solzenicyn solo se avanza tempo…) per evitare il pericolo di un’adesione ideale e decontestualizzata al testo filmico.

Loznica ha dichiarato “Vedo questo film come uno studio visuale sulla natura del culto della personalità staliniana…è inconcepibile che ancora oggi, a Mosca, 66 anni dopo la sua morte, migliaia di persone si riuniscano davanti alla sua tomba il 5 di marzo per deporre fiori e piangere la sua morte. È mio dovere di film-maker utilizzare il potere dell’immagine documentaria per rivolgermi alle menti dei miei contemporanei e cercare la verità”. Ebbene, da piccolo e insignificante studioso che si è occupato per qualche anno dello stalinismo e che condivide perfettamente queste sue affermazioni, devo dire che questo obiettivo di appello mentale e messa in prospettiva non mi sembra raggiunto. Se ci dobbiamo fidare ciecamente del “realismo ontologico dell’immagine cinematografica proveniente dall’archivio”, allora l’idea che passa è semplicemente quella di una celebrazione, lo strato superficiale della pellicola e dello schermo, se non interrogati, non rispondono. O danno risposte fallaci.

Insomma, rimaniamo un po’ basiti da questa riproposizione quasi celebrativa di uno spettacolo in realtà intimamente tragico: lungi dalle iper-emotive manifestazioni obbligate di dolore dello juche nord-coreano, siamo ben coscienti che la stragrande maggioranza della folla di semplici cittadini piangenti e gementi di fronte al feretro dell’assassino di poeti fosse sincera (i dirigenti no, quelli sapevano bene di essersi finalmente liberati di un mostro sanguinario e avevano già avviato le proprie trame di potere), ma a disturbare uno spettatore informato è proprio il contrasto stridente della focalizzazione cognitiva, ossia quello iato insanabile fra un lutto nazionale condiviso e reale da un lato, e la coscienza che esso era basato su premesse totalmente illusorie e falsate dall’altro.

È come se questa volta i materiali d’archivio vivessero di vita propria (o di “morte” altrui…) e fossero “sfuggiti di mano” a Loznica, che non li domina registicamente, e ci costringe a sentire centotrentacinque minuti di lodi esaltanti sulla grandezza di uno dei peggiori criminali della storia, che uccise più comunisti e operai di Hitler, ma che continua in Russia ad essere oggetto di venerazione; una simile operazione non può contare su principi e standard meramente compilativi, ma deve necessariamente essere accompagnata da un controcampo argomentativo che aiuti lo spettatore medio a decifrare il contesto.

Operazione ibrida, affascinante e inaspettatamente rischiosa…

Senza voto.