Ana, sarta di Belgrado, è divorata da una silenziosa ossessione che le impedisce di vivere serenamente la propria quotidianità con il marito e la figlia ventenne: sospetta infatti che, diciotto anni prima, il figlio minore da lei partorito non sia nato morto in ospedale, ma “venduto” dai medici a una famiglia adottiva…

Una co-produzione tutta balcanica ha unito Serbia, Croazia, Slovenia e Bosnia-Herzegovina per raccontare una storia dove sono stati messi da parte sia l’umorismo nero e l’esagerato gusto del grottesco con cui il grande pubblico è spesso abituato ad associare i film provenienti dalle estremità sud-orientali dell’Europa, sia le ferite lasciate aperte dai conflitti degli anni ’90, altro tema insistentemente presente nel cinema di chi ne era stato, allora, testimone più o meno diretto.

Indubbiamente, anche qui i traumi non completamente elaborati delle guerre balcaniche e dei bombardamenti di Belgrado del 1999 sono percettibili, in sordina, tanto nelle vite modeste di Ana e della sua famiglia quanto tra le strade e le crepe dei brutti palazzoni alla periferia della capitale serba. Ma gli “strappi” dell’anima e della coscienza che la sarta Ana si sforza di rammendare (il titolo del film in serbo si può tradurre per l’appunto come “cuciture”, “punti”, a riconferma di questa metafora suggerita dalle numerose scene in cui vediamo la protagonista china e concentrata sulla macchina da cucire) non sono stati provocati dalla guerra, ma dalla situazione di caos che l’aveva preceduta nella Jugoslavia del 1989-1990, quando falsificare documenti e far “sparire” persone, neonati compresi, erano procedure difficilmente perseguibili da una polizia corrotta e da un sistema giudiziario pressoché inesistente.

Il regista Miroslav Terzić (classe 1969), qui alla sua opera seconda, si è ispirato a una serie di episodi realmente accaduti nella Belgrado di quegli anni: come leggiamo nella didascalia prima dei titoli di coda, sono stati registrati almeno 500 casi di neonati dati per morti o scomparsi, e nessuno di questi casi è stato risolto – se mai, si è provveduto a “chiuderli” d’ufficio, come i poliziotti chiedono di fare anche ad Ana nel film, in modo da mettersi il cuore in pace una volta per sempre.

La protagonista Ana, come comprendiamo da una serie di segnali e di informazioni frammentarie che ci vengono fornite passo passo nel corso del film per ricostruire autonomamente il puzzle completo di questa angosciante storia familiare con venature da thriller psicologico, per quasi vent’anni non si è data per vinta e ha continuato a bussare alle porte di ospedali, uffici comunali, commissariati di polizia, solo per conoscere la verità su questo feto letteralmente scomparso, sepolto non si sa dove, forse deforme e nato morto come detto da un’ambigua signora in camice bianco, forse, invece, ancora vivo con un nome e un cognome diversi. La devastante sindrome post-traumatica di una donna incapace di rassegnarsi all’idea di avere perso un figlio subito dopo il parto si intreccia alla rabbia sorda di chi è stato ingannato da un sistema cinico e senza scrupoli. E tutto ciò impedisce ad Ana di vivere pienamente un’esistenza che, per quanto dimessa, va avanti, tra un marito affettuoso che in qualche modo si è fatto forza per arginare le sofferenze da lui stesso patite diciott’anni prima, e una figlia giovane ed energica con cui però la madre non è mai riuscita a stabilire un vero rapporto di complicità: ad aver eretto un muro tra le due è proprio l’ombra del fratello mai nato. La giovane Ivana, meno conciliante del padre, ha rimosso a forza questa figura mai conosciuta e ne nega l’esistenza fino a quando, forse proprio nel tentativo inconscio di recuperare un dialogo con la madre, si rivelerà – complici i social network attraverso cui la sua generazione si approccia al mondo – un’insperata “aiutante”, e sarà in grado di far arrivare la ricerca di Ana all’agognato “momento della verità”.

Terzić è riuscito nella difficile impresa di dipanare con pudore e delicatezza un soggetto che poteva facilmente cadere in esagerazioni drammatiche o retoriche, e ha lasciato allo stesso tempo trasparire le intenzioni di denuncia sociale da cui era scaturita l’idea del film. Questo è stato possibile innanzitutto grazie all’impeccabile recitazione della protagonista, Snezana Bogdanovic, mai sopra le righe, intensa nei primi piani e nei lunghi momenti di silenzio in cui la vediamo affaccendata tra i piccoli impegni quotidiani, capace di veicolare emozioni forti come la rabbia e il dolore senza mai debordare oltre lo spazio intimo e cameristico in cui li ha racchiusi. E poi grazie alla cura per i dettagli, che come già detto ci consentono di ricostruire gradualmente quando accaduto nei diciott’anni precedenti: la torta assurdamente preparata per il compleanno del figlio scomparso; il ragazzo che Ana osserva in autobus (forse fantasticando che si tratti proprio di lui); le attese notturne alla finestra, in preda all’insonnia e in perenne attesa che “qualcuno” appaia come per magia; la parente che invita Ana a guardare in faccia le cose come stanno e a rassegnarsi come lei si era rassegnata quando le avevano detto che non poteva avere figli.

Il risultato convince ed è coinvolgente dall’inizio al finale aperto, con un tocco conclusivo particolarmente toccante (dato da un altro piccolo e fulminante dettaglio che fa da eco a un gesto con cui avevamo imparato a conoscere la protagonista), capace di far capire, in modo asciutto e semplice, in quale misura il legame naturale tra genitori e figli, nonostante tutto, sia qualcosa che va ben oltre i meccanismi razionali e sociali.