Egor è una guardia forestale in un paesino della Siberia, dove scorre la tipica vita del microcosmo provinciale russo. Quando si ammala di cancro, rivela la notizia alla sua famiglia solo allo stadio terminale della malattia. Pare non ci sia modo di salvarlo, né con la medicina tradizionale né ricorrendo a rituali pseudo-sciamanici. Finché, inaspettatamente per tutti e anche per se stesso, Egor non escogiterà istintivamente un inedito piano per esorcizzare la morte in arrivo, rovesciando letteralmente la propria identità di genere…

“Nastoyashiy muzhik”, “vero uomo”: una coppia aggettivo+sostantivo onnipresente nelle conversazioni del russo medio da Kaliningrad a Vladivostok, una (pre)determinazione obbligata a cui, nella Russia di ieri, ma anche e soprattutto di oggi, ben pochi individui di sesso maschile possono prescindere sin dalla più tenera infanzia. Essere un “vero uomo”, nell’educazione che viene spesso data per scontata a casa e a scuola, implica non solo accentuare (spesso artificiosamente) la propria virilità e la propria forza, che si possono manifestare nell’autorità del pater familias, nell’aggressività della competizione sportiva o nella ferrea tenacia sul posto di lavoro. Un’altra regola non scritta a cui si deve attenere il “vero uomo”, infatti, è la totale inibizione di sentimenti ed emozioni, immancabilmente esposti al pubblico ludibrio come debolezze o come capricci da donne, il che costituisce un marchio d’infamia ancora peggiore. Nessuna lacrima, nessun tentennamento, nessuno sfogo: senza la corazza del “vero uomo”, secondo la vulgata, difficilmente farai strada. (E potremmo aggiungere, senza dilungarci in ulteriori dettagli sui valori traslati da governo e media nella Russia odierna, che la categoria di “vero uomo” riguarda tanto l’ambito privato quanto quello pubblico: non è un caso che l’equivalente culturale russo della “Festa del papà” sia una ricorrenza di Stato chiamata “Giorno dei difensori della patria”, che celebra le Forze armate del paese e per traslato, i figli, mariti e padri russi, tutti potenziali guerrieri in ogni loro campo d’azione).

Forse è proprio la categoria di “vero uomo”, iniettata sottopelle a intere generazioni di russi, a fornirci una chiave di lettura per questo curioso film della coppia di registi quarantenni Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, marito e moglie moscoviti d’adozione che approdano per la prima volta a Venezia. Merkulova e Chupov già da alcuni anni stanno scrupolosamente scavando tra le nevrosi dei loro coetanei nella Russia di oggi, con particolare attenzione per i rapporti di coppia e le pulsioni sessuali, dove emergono zone d’ombra in totale discrasia con i “valori tradizionali” su famiglia ed educazione dei bambini su cui predicano, negli ultimi anni, la Chiesa ortodossa, il governo e gli organi preposti all’istruzione e alla cultura.

Se nel precedente Parti intime (Intimnye mesta, 2013), vincitore di più premi in Russia, i due registi avevano girato una serie di episodi su fobie e perversioni di un piccolo collage di abitanti della capitale, qui si ritorna ai luoghi d’origine di Natasha Merkulova, nata per l’appunto in Siberia. Va detto subito che è stato fatto un netto passo in avanti rispetto a Parti intime, dove i pronunciati cliché sociali e la patina glamour nel fotografare figure e ambienti più congeniali a New York che non a Mosca facevano spesso pensare a una puntata di Sex and the city. Lo sfondo di una provincia rimasta sostanzialmente uguale a se stessa (il film potrebbe essere ambientato sia ai tempi dell’infanzia della regista che oggi) risulta decisamente più congeniale a Merkulova e Chupov, che tra fiumi stagnanti, strade sterrate e case di legno catturati nei loro colori freddi e opachi strizzano l’occhio a tutta una serie di film russi recenti ambientati al di fuori delle grandi città (da The Geographer Drank his Globe away di Aleksandr Veledinsky a The Postman’s White Nights di Andrey Konchalovsky, presentato sempre a Venezia nel 2014, passando ovviamente per il Leviatano di Andrey Zvyagintsev), ma in questo caso senza sottotesti politici: Merkulova e Chupov giocano più a fare gli entomologi intenti a studiare, appunto, il “vero uomo” russo, concentrandosi su un solo personaggio osservato da vicino, dall’inizio alla fine.

Egor, il protagonista di The man who surprised everyone, è senz’altro un “vero uomo” per gli standard russi, che, va da sé, si irrigidiscono ulteriormente in una provincia arretrata come quella siberiana: è fisicamente prestante, si occupa di mantenere la famiglia (suocero compreso), sbriga i più svariati compiti faticosi per portare avanti la casa, fa un lavoro “virile” per eccellenza come quello di guardia forestale nei boschi freddi e incontaminati della zona (“A scuola hanno detto che sei figo!” esclama suo figlio tutto orgoglioso, dopo che il padre si è difeso sparando contro alcuni bracconieri nella scena iniziale). Intuiamo che non ha rapporti troppo cordiali con il resto della comunità piccola e chiusa dove vive, ma ne rispetta il codice di comportamento. Noi spettatori non lo possiamo sapere, ma probabilmente si è rivolto a un medico, di nascosto dalla famiglia, solo quando i sintomi della malattia che lo stava consumando si erano già spinti troppo oltre, perché, sempre nell’ottica del “vero uomo”, farsi visitare da un dottore implica riconoscere i propri “inammissibili” acciacchi fisici. Fino all’ultimo neanche l’amorevole moglie Natasha (bella scoperta il viso dolce di Natalia Kudryashova) viene messa a parte della cosa; quando il piccolo Artyom piange pensando alla malattia del papà, Egor non a caso gli sussurra un goffo “Su, smettila, sii uomo”.

Tanto maggiore sarà la misura in cui Egor davvero “sorprenderà tutti” quando, senza spiegazioni, addirittura senza più aprire bocca, rovescerà l’identità di genere che aveva dato per scontata da sempre, e vestirà panni femminili, prima solo di notte, a mo’ di bizzarro licantropo, poi anche alla luce del sole; prima solo nel giardino di casa, poi davanti a tutto lo scioccato microcosmo dei “veri uomini” di un paesino che, ovviamente, mormora, si indigna e mette Egor al bando.

Attenzione, però: ciò non significa necessariamente che Egor manifesti, con questo gesto, un’omosessualità repressa, né tantomeno che esibisca una sua parte femminile preponderante e prima inibita. La scelta istintiva di Egor (in parte ispirata alla leggenda su un uomo capace di trarre in inganno la morte, raccontatagli da una pseudo-sciamana alcolizzata i cui rituali taumaturgici posticci hanno ben poco in comune con le vere tradizioni esoteriche siberiane) pare più un travestimento di stampo carnevalesco, la creazione di un “mondo alla rovescia” dove i malati guariscono, i morti tornano in vita, i “veri uomini” possono essere qualcosa di diverso dalla maschera che il loro milieu gli ha cucito addosso. Cammuffato con il tacco alto e la minigonna, Egor non sfoga delle pulsioni, ma ha la mimica malinconica di un Pierrot lunare, di un personaggio da fiaba che si traveste per mettersi in incognito e rendersi irriconoscibile dal mondo esterno prima e dalla morte poi (forse con risultati davvero miracolosi). Il volto di Evgenij Tsyganov, triste e impassibile, ben incarna la “corazza” del “vero uomo” nella prima metà del film e la maschera ambigua del “diverso” nella seconda parte. 

Un soggetto come questo, senza andare a scomodare facili risvolti della tematica LGBT o eventuali sottotesti psicologici (di Egor intuiamo ben pochi movimenti dell’anima, proprio perché li ha in larga parte bloccati e inibiti lui stesso), può fornire senz’altro degli interessanti spunti di riflessione sulla forma mentis della Russia (e, forse, non solo della Russia) passata e presente. Il problema è individuare un pubblico in grado di comprenderne le sfumature: difficile capire se questo film potrà trovare una distribuzione ad ampio raggio in Russia (visto il soggetto provocatorio rispetto ai già citati “valori tradizionali”, sicuramente non mancheranno i detrattori), e d’altro canto per gli spettatori stranieri sarebbe più accessibile un film dove, piuttosto, viene tematizzato esplicitamente il problema dell’omofobia, tabù che oggi rende davvero difficile le esistenze di tanti giovani russi. The man who surprised everyone è invece una storia bizzarra e difficilmente inquadrabile in questo contesto, che può dunque lasciare lo spettatore incuriosito e perplesso insieme.