A rappresentare la Danimarca in questa edizione della Settimana Internazionale della Critica è la giovane filmmaker Annika Berg, con il suo coloratissimo Team Hurricane. Film al limite dello sperimentale che mescola documentario e finzione e alterna riprese professionali a scene catturate con webcam e telefonini (il tutto intervallato da sequenze psichedeliche che abbondano di grafiche oltremodo kitsch), Team Hurricane è un fluorescente esercizio di stile di una giovane cineasta che cerca di fondere narrativa e videoarte in un’ora e mezza carica di provocazioni (ma forse anche di poco altro).

La Berg segue la storia di un gruppo di ragazze iscritte a un bizzarro “centro per giovani”, tutte accumunate dallo stile eccentrico, dall’amore per l’estetica kawaii e da diversi problemi in famiglia o più in generale nella loro vita di adolescenti, come ognuna di loro confesserà in un piccolo segmento in cui ogni ragazza si riprende da sola, nella privacy della propria cameretta.

Tutto il film in realtà può essere riassunto in questa scarna sinossi, aggiungendo semmai i ridondanti elementi vaporwave e le numerose interruzioni grafiche che vanno a “disturbare” la narrazione (se così vogliamo chiamarla. Quello che la Berg ha voluto fare, forse realizzando più un esperimento di videoarte che un vero e proprio film, è cercare di raccontare i classici disagi giovanili visti e stravisti in decine e decine di documentari e film, utilizzando però i mezzi espressivi più anticonvenzionali che potesse adoperare: il risultato è un’esperienza sicuramente unica, anche se nell’accezione neutra (e meno nobile) del termine.

Voler far convivere elementi sperimentali così invadenti (immagini coloratissime in un montaggio serrato accompagnate da musica trap, vaporwave e phonk) con scene che si candidano a parlare più o meno seriamente di disagio giovanile non è per forza una cattiva idea, ammesso che un fine lavoro di montaggio e sceneggiatura riesca a cucire assieme queste due metà così diverse: purtroppo questa ricercatezza in Team Hurricane manca del tutto, è il risultato finale è un’ora e mezza circa di totale vanvera audiovisiva, un mix di superficiale e profondo (o sedicente tale) che sembra essere uscito dalle mani di un VJ piuttosto che dal lavoro di un’aspirante cineasta di domani. A rendere il film un po’ più indigesto del dovuto poi è la durata: se un progetto simile fosse stato ristretto entro i quindici/venti minuti canonici di un cortometraggio, probabilmente sarebbe risultato più apprezzabile, sempre entro la sua bizzarria. A penalizzare la visione del film forse è anche il confronto con gli altri film selezionati quest’anno nella Settimana Internazionale della Critica, che a prescindere dalla qualità sono quasi tutti progetti di fiction e comunque tutti privi di questo forte sapore amatoriale che la Berg ha voluto dare al suo progetto.