Passato in sordina insieme agli altri valevoli film di Taiwan di questa edizione, Terrorizers di Ho Wi-ding non si riduce a essere un mero omaggio al capolavoro omonimo di Edward Yang del 1986, ma sviluppa una propria identità attraverso la frammentazione del montaggio e la messa in crisi delle certezze dello spettatore, per quanto si avverta la mancata elaborazione di un discorso politico compiuto – elemento imprescindibile della stagione del cinema taiwanese cui la pellicola fa riferimento.
A Taipei, le vite di quattro individui si sfiorano apparentemente per caso: Xiao Zhang – J.C. Lin – ha appena lasciato il suo lavoro sulle navi da crociera, con il sogno di aprire un ristorante in città. Yu-fang – la giovane promessa Moon Lee – studia recitazione assieme all’amica Monica – la stella Annie Chen –, la quale sta però avendo problemi ad avviare la propria carriera a causa dei suoi trascorsi nel porno. Infine, il liceale Ming-liang – Po-Hung Lin, il protagonista di I, WeirDO (2020), presentato al FEFF22 – medita la propria vendetta ai danni di una non meglio precisata ex fidanzata.
Regista di cultura e lingua cinesi cresciuto nelle enclave sinofone della Malesia, e tornato a Taiwan solo in età adulta – al pari di Tsai Ming-liang –, Ho non è nuovo al gioco della sovrapposizione temporale: nel precedente thriller sci-fi Cities of Last Things (2018), per esempio, le cause profonde che hanno condotto al suicidio del protagonista vengono illustrate– con qualche accelerazione in avanti e indietro – in ordine cronologico inverso. Tuttavia, l’approccio al tempo è qui più radicale in quanto, come rivela il titolo, il regista intende confrontarsi con l’eredità dell’opera più avanguardista di Yang, finendo di conseguenza per misurarsi anche con l’influenza del cinema di Antonioni – e di Blow Up (1966) in particolare, come si evince dal personaggio del fotografo – che in essa riecheggiava profondamente.
Popolando il suo film di una miriade di personaggi secondari e sottotrame, approntando per questi un background più definito di quanto non avesse fatto in origine lo stesso Yang, Ho parcellizza la narrazione creando un gioco di specchi per il quale anche quei comparti narrativi che si credevano a tenuta stagna si rivelano progressivamente vasi comunicanti, ovvero fili della ragnatela tessuta, in maniera più o meno volontaria, dallo psicopatico Ming-liang per portare a termine la propria vendetta, resa sullo schermo in un’inaspettata esplosione di violenza che richiederà poi il resto del film per essere ricostruita.
Com’era inevitabile, detta parcellizzazione si traduce in un montaggio parossistico, sincopato, con ellissi e tagli improvvisi che impediscono di comprendere esattamente la collocazione geografica e temporale degli interpreti, quasi che non si volesse concedere alle scene il privilegio di concludersi, privandole cioè di coerenza individuale allo scopo di raggiungere una più sottile coerenza d’insieme all’insegna dello spaesamento. A rinforzare questa sensazione di visuale incompleta, si aggiunge infine un uso della macchina da presa elusivo, con campi sufficienti a inquadrare uno o massimo due interpreti a mezzo busto – impedendo così che lo spettatore possa anticipare l’entrata in campo di altri elementi – e che in più di un’occasione trasla sul piano registico l’impulso scopofilico di Ming-liang, riprendendo in soggettiva dalle fenditure che il giovane maniaco usa per osservare le sue vittime senza essere visto.
Complessivamente, si può dunque dire che Terrorizers tenga testa al suo illustre predecessore nel demolire la convenzioni di onniscienza e distanza di sicurezza dello spettatore, da cui deriva per esso una senso di impotenza e frustrazione che, unita al gioco intellettuale della decifrazione, conseguiva nel film di Yang lo scopo di rendere il fruitore partecipe del senso di disorientamento della gioventù taiwanese di fine anni Ottanta, dove le ombre di instabilità politica e crisi valoriale che si allungavano sulla società del tempo rischiavano di oscurare il conquistato benessere.
Tuttavia, è proprio nel sottotesto che la reinterpretazione di Ho risulta manchevole. Infatti, per quanto si possa riconoscere una critica – abbastanza grossolana, a dirla tutta – alle bestie nere dell’intrattenimento digitale (pornografia, social media, videogiochi), incarnate dal personaggio para-hikikomori Ming-liang, manca del tutto una riflessione di ordine politico sulle mutate condizioni dell’industria dell’intrattenimento – di cui Monica e Yu-fang sono vittime a diverso titolo –, sulla predominanza sempre più schiacciante dei modelli culturali giapponese e cinese del mainland – il personaggio della cosplayer amica di Ming-liang si può forse intendere in quest’ottica – e sulla precaria condizione economica che già prima della pandemia aveva arrestato l’ottimismo della corrente generazione. In altre parole, risulta riduttivo il modo in cui Ho traccia la mappa semantica del male di vivere dei giovani taiwanesi, per il quale il solito adagio circa il potere alienante delle nuove tecnologie è quantomeno riduttivo, e non rende giustizia alla complessità di un film sì raffinatamente stratificato.
A conti fatti, è comunque confortante notare come Terrorizers non rappresenti un’occasione sprecata, e sia anzi un ulteriore indice dello stato di salute del cinema di Taiwan, dai cui autori però è a maggior ragione lecito aspettarsi qualcosa in più.