Dopo la disillusa disamina della vita coniugale portata sugli schermi del FEFF da Aubrey Lam con Twelve Days, il brillante esordio al lungometraggio della coreana Kim Se-in The Apartment with Two Women procede a demolire lo stereotipo confuciano della buona madre disposta a sacrificare se stessa per il benessere dei figli, firmando con personalità e distacco una storia di abusi domestici tutta al femminile che contribuisce a svecchiare un panorama cinematografico solo di rado misuratosi con i conflitti intergenerazionali madre-figlia – preferendo il più delle volte l’apparentemente più spietato universo maschile.

The Apartment with Two Women

Nonostante vada ormai per i trenta, Yi-jung – l’esordiente Lim Ji-ho – non è riuscita a mettere da parte abbastanza per lasciare l’appartamento dove convive con la madre Su-kyungYang Mal-bok, per la priva volta protagonista dopo tanti piccoli ruoli in produzioni di successo come Intruder (2020) e Squid Game (2021) –, la quale si prepara invece ad accasarsi col suo nuovo fidanzato. La loro quotidianità è fatta di insulti e percosse, tanto che Yi-jung nemmeno si sorprende quando Su-kyung tenta di investirla con l’auto nel parcheggio del supermercato. Tuttavia, questa volta non si lascerà intimidare e sporgerà denuncia ai danni della sua aguzzina, preparandosi a una rottura definitiva onde trovare la propria indipendenza.

Classe 1992, Kim con il suo The Apartment with Two Women è stata una delle più grandi rivelazioni dell’ultimo Busan International Film Festival, dove ha stupito giuria e pubblico per lo sguardo antispettacolare e già compiutamente autoriale con cui si è approcciata al tema della dissoluzione dell’istituzione familiare, per rappresentare il quale ha deciso di focalizzarsi su uno delle caste “invisibili” della società coreana: quello delle madri single e precarie. A ogni modo, la sua opera prima non vuole essere un ritratto impietoso dei pregiudizi invalsi nel proprio paese – che pure vengono immancabilmente a galla, come il ruolo insostituibile dell’uomo di casa, in quanto portatore di reddito e rispettabilità, l’urgenza del matrimonio e dell’impiego stabile –, quanto una un’indagine dalla valenza universale sulle storture implicite nel concetto di genitorialità, e sullo scarto sussistente tra il legame biologico e i doveri che si accompagnano al ruolo di madre.

Nei suoi quasi 140 minuti, The Apartment with Two Women non procede a ritmo costante, ma si muove tra brusche accelerazioni e interminabili istanti di pensierosa contemplazione, quasi a voler traslare sul piano del montaggio la follia di Su-kyung, ai cui raptus seguono momenti di distensione e isolamento in cui Yi-jung cerca di ritrovare il proprio equilibrio. Tuttavia, come le due protagoniste non possono sopportare a lungo il peso dei propri pensieri – e pertanto tornano ad avvicinarsi per scontrarsi ancora –, così allo spettatore risulta difficile sostenere le lunghe inquadrature a camera fissa, che si tratti di Yi-jung che, in soggettiva, fissa il soffitto di un appartamento che non potrà permettersi, o viceversa di sua madre che, incurante di essere stata abbandonata dall’ultima persona a lei vicina, continua a esercitarsi al flauto dolce nella casa deserta.

The Apartment with Two Women

Sarebbe tuttavia un errore sostenere che The Apartment with Two Women debba la sua intensità alle sole interpreti, per quanto la loro chimica sullo schermo ne rappresenti senz’altro un punto di forza, soprattutto se si considera lo stato di instabilità mentale che è stato loro richiesto di rendere – e che ha richiesto uno sforzo non indifferente sul piano fisico. Di fatto, il più grande merito di Kim è quello di aver lanciato un grido d’allarme ben chiaro – ovvero, che la famiglia costituisce spesso terreno fertile per la malattia mentale, consentendo ai padri di perpetrare sui figli i medesimi abusi subìti – utilizzando soltanto i sottintesi, affidandosi cioè a una serie impercettibili gesti e simbolismi – uno sguardo fugace in uno specchietto, un inaspettato balzo in avanti della macchina – che ci raccontano tutto della paura di invecchiare e dell’egoismo di Su-kyung, come anche del carattere infantile e della sostanziale incapacità di comunicare di Yi-jung, insinuando il dubbio in merito alla necessità, nonchè alla possibilità, di emanciparsi – un film che ragionava su questo stesso aspetto in ambito familiare era Jusqu’à la garde (2017), anch’esso opera del giovane esordiente francese Xavier Legrand premiato a Venezia.

Matura e pronta a prendersi la responsabilità delle proprie scelte in termini di narrazione e gestione dell’immagine, Kim Se-in si preannuncia una delle nuove figure di spicco del cinema d’autore coreano, oggi più che mai bisognoso di uno sguardo fresco sui radicali cambiamenti che il paese sta attraversando, e che rischiano di passare inosservati nel generale entusiasmo per la hallyu di questi ultimi anni.