Dopo 8 anni di assenza, Hou Hsiao-Hsien ritorna sul grande schermo con The assassin, lavoro che gli vale il premio per la miglior regia alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes.
Nella cornice della Cina del IX secolo, un’epoca di incertezza e tensione, che vede la dinastia Tang avviarsi verso un inesorabile declino e un numero sempre maggiore di signori feudali tentare di emanciparsi dal potere centrale, il film segue la storia di Nie Yinniang, un’assassina facente parte di un ordine di sicari i cui bersagli sono i nemici dello stato e i funzionari corrotti. Ma dopo aver fallito nell’assassinio di un bersaglio designato (impietosita dalla presenza del figlio di questi) in lei iniziano a sorgere dei dubbi. Per saggiare la sua determinazione, la nonna e maestra decide di affidarle l’incarico di uccidere il signore ribelle della provincia di Weibo, Tian Ji’an, suo cugino nonché promesso sposo in gioventù, per il quale l’assassina nutre ancora un profondo affetto.
The assassin in linea teorica apparterrebbe al genere wuxia, l’action cinese all’insegna delle arti marziali, ma Hou interviene su ogni punto fermo del filone, al punto che la sinossi è l’unico elemento che permette di collocare il film in questa categoria; il regista taiwanese stravolge le fondamenta stesse del genere e ne rivoluziona ogni elemento, a partire dalla struttura, per capovolgerne successivamente anche il ritmo, il montaggio e la regia, generando così un wuxia davvero atipico, che vede sì la presenza di scontri e sequenze d’azione, ma che è orientato verso una visione contemplativa di natura estetica.
Il film è quindi leggiadro e aggraziato, gli effetti speciali che animano molte sequenze non sono eccessivamente invadenti, l’elemento della violenza risulta ugualmente incisivo nonostante l’assenza di qualsivoglia connotazione splatter. Anzi, ciò contribuisce a creare, assieme alla gestione dell’elemento naturalistico, alla maggioranza di figure femminili, ai richiami a un codice cavalleresco ormai perduto, all’idea dell’onore e della fedeltà che sono da soli espressione di bellezza, e ai combattimenti (che come in tutti i wuxia sembrano danze) nei quali non avviene quasi contatto fisico, un generale e pervasivo alone di purezza a candore che accompagna la visione.
È l’immagine pura a trionfare in The assassin: la trama, man mano che si procede con la visione, si fa sempre meno importante e sempre più rarefatta, non v’è un vero e proprio svolgimento lineare e continuo, anche perché l’opera non persegue nessun tipo di climax, e allo spettatore non viene offerto nessun appiglio tradizionale che aiuti a comprendere i personaggi. Come in Drive di Refn, ogni attore interpreta un carattere, una figura non definita e universalizzante, dalla comparsa fino alla protagonista, la cui caratterizzazione si esplica nell’estetica del film.
È in questo modo che l’opera si riallaccia alla filmografia intera dell’autore e riprende il concetto di contemplazione – in Hou decisamente meno presente e meno anarchica rispetto al connazionale Tsai – in quanto la concettualità dell’opera si riduce a zero per lasciare spazio alla purezza della visione in sé, che gradualmente si slega dal contesto e inizia a tendere sempre di più verso l’astratto. In questo modo l’intero film consiste nella rappresentazione grafica del dilemma di Nie Yinniang, della sua esitazione e del suo mai dimenticato affetto per Tain Ji’an. In poche parole, The Assassin, pur senza una trama canonica, un rarissimo ricorso al dialogo (fatta eccezione per la prima parte) e dei personaggi la cui caratterizzazione viene volutamente appena abbozzata, è un film sul sentimento.
Il cinema è un’arte che usa il mezzo visivo e quello uditivo; ebbene, Hou lavora sulla sinestesia concretizzando l’astratto di cui si parlava prima. Nella protagonista albergano una serie di sentimenti contrastanti, ma essi non vengono rivelati ed esplicati attraverso l’interpretazione dell’attrice, o le sue parole e azioni, ma per mezzo dell’allineamento del suo sguardo con quello dello spettatore: l’immagine creata dal regista, sempre ricca, quasi barocca per via della sua pienezza di colori ed elementi, è la rappresentazione più immediata di ciò che prova la protagonista in quel preciso momento. Lo spettatore assiste al tormento interiore di Nie Yinniang, che viene rappresentato da una serie di immagini il cui scopo è evocare immediatamente lo stato emotivo della protagonista attraverso il linguaggio dell’audiovisivo, trascinando così lo spettatore in un flusso continuo.
Pe creare questo tipo di immagine, Hou Hsiao-Hsien piega il genere sul proprio modo di fare cinema ma si concede anche qualche variazione. La sua regia questa volta è completa. Se nei suoi capolavori come Città dolente o Il burattinaio gran parte dell’impatto era dovuto all’ininterrotto utilizzo del campo medio, in questo film ricorre senza problemi al primo piano (finora quasi inedito nel suo cinema) per despettacolarizzare alcune inquadrature, individuando meglio i soggetti all’interno dello sfuggente contesto, e calcando la mano sul particolare registro recitativo scelto per i suoi attori, che non sono mai un elemento frenetico all’interno dell’inquadratura ma anzi sembrano dipinti sullo sfondo, come se fossero indipendenti dall’ambiente in cui si trovano, in modo da slegare l’azione dalla circostanza spazio-temporale.
La Qi Shu di Millenium Mambo è irriconoscibile ma ugualmente perfetta nel suo ruolo. Questa caratteristica viene evidenziata dalla calibratissima fotografia di Ping Bing Lee, il cui lavoro è essenziale per la costruzione e la completezza cromatica dell’immagine di The Assassin, evocativa e ricca senza risultare mai kitsch o eccessiva, come era invece in The flowers of Shanghai. Nonostante questo, Hou persevera nell’utilizzo del piano-sequenza, cosa che spezza ogni equilibrio del wuxia perché in un colpo solo rallenta il ritmo e vanifica il ruolo del montaggio, che in quest’opera non è affatto fondamentale; il piano-sequenza nella sua semplicità è formalmente la qualità più rivoluzionaria dell’opera, e quella che consente di rompere più schemi assicurando l’effetto finale.
In conclusione, The assassin è un film che è perfettamente in linea con i precedenti lavori del regista nonostante si avventuri in un territorio inesplorato da questi (anzi, forse per questo è innegabilmente innovativo), e, anche se richiede un minimo di predisposizione, rappresenta una visione molto interessante ed emozionante, in virtù del fatto che parlare di sentimento attraverso l’immagine è lo scopo stesso che si prefigge cinema.
Titolo originale: Nie yin niant
Nazione: Taiwan
Anno: 2015
Genere: Drammatico, Azione
Durata: 104′
Regia: HOU Hsiao HsienCast: Qi Shu, Satoshi Tsumabuki, Chen Chang
Data di uscita: Cannes 2015