Dopo aver già scatenato una pioggia di applausi Venerdì con il poliziesco Veteran (2015), l’acclamato regista coreano di City of Violence (2006) e The Unjust (2010) Ryoo Seung-wan torna a stupire il pubblico di Udine presentando il director’s cut del suo The Battleship Island (2017), una spumeggiante e truculenta ricostruzione “storica” infarcita di una buona dose di finzione e sentimento antinipponico.
1945, Mar Cinese Orientale. Sull’isola di Hashima il governo giapponese ha deportato centinaia di sudditi coreani e delle altre colonie come manodopera a basso costo per le attività estrattive, costringendoli a orari di lavoro e condizioni di vita disumani. Uno di questi è il musicista Lee Gang-ok – il grande Hwang Jung-min di The Unjust e di A Bittersweet Life (2005) di Kim Jee-won –, deportato assieme alla sua banda e alla figlioletta So-hee – Kim Su-an. Intanto a Hashima è arrivato anche Choi Chil-sung – la stella So Ji-seob –, agente infiltrato delle forze indipendendiste incaricato di trarre in salvo il capo della comunità coreana locale. Ma abbandonare l’isola-fortezza costerà molte più vite del previsto.
Con quest’ultimo film Ryoo si inserisce nel filone dell’exploitation asiatico, come è evidente in primo luogo dalla caricatura offerta dei giapponesi: essi sono il male assoluto, uno stuolo di pedofili e incompetenti che sin dalla prima inquadratura riescono insopportabili a chi guarda. Sfruttando al meglio l’espressività del bianco e nero – ricorrente in alcune emblematiche sequenze – e della fotografia passa quindi a descrivere l’orrore del lavoro in miniera, regalando immagini degne di un dipinto della scuola fiamminga per la maestria nell’utilizzo del chiaroscuro.
The Battleship Island non solo si configura come un’opera estremamente raffinata dal punto di vista formale, ma presenta anche un ritmo invidiabile che tiene lo spettatore incollato allo schermo, con un intreccio facilmente prevedibile ma così ben calibrato – anche nei suoi semplici colpi di scena – da garantire un’immedesimazione completa con il povero Lee e compagni. E la qualità dell’azione che la pellicola provvede è tale da renderla un vero gioiellino nel suo genere, seguendo una climax che dalle botte pure e semplici arriva, negli ultimi memorabili venti minuti, a una guerra senza quartiere sull’isola tra gli schiavi coreani e i padroni giapponesi. A ciò si aggiunge l’accuratezza del set, la cui ricostruzione ha richiesto diversi mesi per riprodurre fedelmente la complessa geografia di Hashima.
Ryoo non ha peli sulla lingua, e pur prendendo poco sul serio la questione eminentemente storiografica sferra un pugno nello stomaco al negazionismo ancora oggi molto diffuso nella communis opinio giapponese: senza scadere nel precettismo o sacrificare secondi preziosi all’escalation di violenza, il regista riesce a toccare la questione delle ianfu – le donne di conforto costrette a prestazioni sessuali –, della sofferenza industriale e dell’oziosità dei quadri dirigenti che portarono alla sconfitta del Giappone e della sottile linea di demarcazione tra traditori e patrioti. E come se non bastasse inserisce pure una piccola love story dal finale tragico, che funge da contraltare ideale per l’idealismo un po’ bacchettone e asessuato di alcuni personaggi e l’amore che lega Lee alla figlia.
Tra tutti gli action finora presentati in quest’edizione, The Battleship Island è sicuramente quello che ci ha convinto di più, anche per il suo punto di vista corale che rende protagonista la massa, cui espressione più spettacolare è proprio la battaglia finale per la fuga – un tripudio di angolazioni e movimenti di macchina arditi.