Da cinque anni Sion Sono continua a sperimentare senza tregua, lo fa con i generi, la tecnica, i mezzi. Dopo il delirio denso di nichilismo pop ed exploitation che risponde al nome di Tokyo Vampire Hotel prodotto e distribuito in formato televisivo da Amazon Prime Sono passa alla piattaforma rivale Netflix per dare vita a The forest of love, l’ultima di circa una dozzina di fatiche nell’ultimo lustro, con la riproposizione della tipica mossa dei registi giapponesi degli anni ’70 che si trasferivano dagli studi della Nikkatsu a quelli della Shochiku o viceversa in una continua guerriglia industriale.

The forest of love è il tipico esordio su Netflix di un autore più o meno affermato ma al contempo è qualcosa di più, non si esaurisce nel suo assiduo gioco citazionistico ma a un certo punto palesa una riflessione interna al cinema (in sé in generale e dello stesso Sono in particolare) attraverso l’autoparodia. Al solito con due pennellate appena e un intreccio apparentemente piatto il regista nipponico è capace di delineare un affresco articolato, la cui profondità inizia a intravedersi solo con il passare dei minuti.

Il film si apre con due scalmanati aspiranti cineasti che “arruolano” il campagnolo Shin, appena arrivato a Tokyo dalla periferia del paese col solito bagaglio di sogni, nel loro collettivo artistico, casualmente legato a due ragazze traumatizzate da una tragedia scolastica e loro malgrado coinvolte nella trame dell’istrionico Joe Murata (Shiina Kippei), truffatore, mentalista, sociopatico, rapitore, cantante, e regista. Ma il titolo compare soltanto dopo una ventina di minuti, cioè durante il flashback che rievoca lo spettacolo teatrale che le due ragazzine Mitsuko e Taeko stavano organizzando con l’amica Eiko per la fine dell’anno – una versione saffica di Romeo e Giulietta – per indicare la centralità del rapporto tra realtà e sua rappresentazione.

D’altro canto i titoli di coda arrivano prima della fine vera e propria, c’è spazio per delle istanze di testo extradiegetico che ci ricordano che l’intera vicenda è tratta da una storia vera. Non che Sono non sia intervenuto sui dati storici, anzi ne astratto appena il nerbo, ma tratteggiare un livello di profondità in più è necessario per rafforzare l’impatto di quello che di fatto è uno sguardo intriso di rassegnazione sulla (prossima) crisi generazionale. La manovra, in fase di architettura narrativa, non è per forza troppo dissimile da quella di Antiporno: Sono sfrutta le condizioni di partenza – due anni fa la commissione di terzi, ora lo stile richiesto da Netflix –  e ne fa la leva con cui sollevare la sua opera. Giocare con lo stile pop, le ridondanze e le citazioni più o meno esplicite della sua filmografia diventa un’arma, appunto, per un’operazione di retrospettiva in chiave (auto)parodica in grado di riportare a galla la maggioranza della tematiche a lui più care fino a far intravedere sotto la sua consueta poetica una stadio ulteriore, un oltre.

Un “oltre” costituisce sempre il focus del film per il nostro, e questa è l’occasione per trasformare un processo extrafilmico (e di pura natura creativa/intellettuale) in un elemento profilmico. Ma Sion parte dai fondamentali, mettendo in scena prima di tutto un intricato dramma narrativamente denso e della durata di circa due ore e mezza che ondeggia continuamente tra commedia con punte di trash, thriller grottesco, onirismo dai toni pulp e metacinema surreale. I riferimenti si trovano in Love exposure, Cold fish, Tag, e soprattutto Why don’t you play in hell?, ma è soprattutto quest’ultimo a essere continuamente richiamato: i due registi in erba sembrano una versione sfibrata dei Fuck Bombers, che non reggono il peso del loro film, ormai degenerato e in mano a Murata e anziché andare fino in fondo, rinunciano, spossati; le transizioni metacinematografiche d’alta scuola che sovvertivano il rapporto tra cinema e realtà ritornano, seppur con una mise fumettistica. In ogni caso, la miriade di citazioni interne viene utilizzata per richiamare idee e associazione concettuali così da comunicare con lo spettatore, secondo il medesimo meccanismo dei nomi propri, con un approccio più organico in questo caso. I personaggi (specie femminili) di Sono hanno grossomodo sempre gli stessi nomi, e ciascuno di essi si ritaglia di film in film un significato particolare in base alle caratteristiche di chi lo portava man mano che queste si accavallano.

Il fulcro del film rimane comunque quello che aveva fatto capolino già da Suicide club, il dolore fisico come ultima risorsa per rimanere attaccati alla vita, l’anedonia del quotidiano sconfessata solo grazie al sangue, alla mutilazione, allo shock. E in The forest of love tutto ciò è presente in abbondanza, persino l’amore si tasta solo attraverso la sofferenza (e qui siamo dalle parti di nuovo di Love exposure pur non alla stessa altezza), e a riprova abbiamo una rete di relazioni intessute nel sadomasochismo, nell’eccesso di violenza che diventa seduzione e così liberalizza la tortura, annulla la morale familiare e capovolge le dinamiche affettive. Fino al punto di rottura, cioè fino a quel punto in cui l’amore per il dolore in sé non soverchia quello per il suo agente efficiente, l’aguzzino. Qui crolla l’incantesimo di Murata, la sua cattiveria – quella della vecchia generazione, la stessa di Sono, disillusa e morente – attecchisce a tal punto che la nuova generazione – quella di Shin e Mitsuko – finisce di assorbire e inizia a reagire con il doppio della forza. Dopotutto Murata non ha mai ucciso nessuno, ha sempre costretto gli altri a farlo al suo posto, ora quest’ultimi si ribellano, comprendono di essere addirittura peggiori, di accedere autonomamente a una dimensione ancora più dissociata e sofferente. Il truffatore ritorna a essere ridicolo con quella sua aria da dandy fuori tempo massimo, e i nostri protagonisti ventenni perdono la loro aura di innocenza: il primo viene di fatto estromesso dalla storia (ma non ucciso perché ne è l’artefice), i secondi ne fanno invece finalmente parte, e infatti iniziano a vedere i fantasmi, a essere risucchiati nel nuovo abisso.

Nuove vittime e nuovi carnefici in un mondo che per Sion Sono è sostanzialmente una propagazione di un trauma affettivo originario. La famiglia ritorna il luogo d’incubazione del male e il dolore l’unica esperienza emotiva, una perversione a metà fra un istinto biologico e una dipendenzaThe forest of love non ha quella potenza intrinseca degli altri film completi di Sion Sono, ma da cinque anni a questa parte è la sua opera più definitiva e completa. Sposa uno stile pop per adattarsi al contesto e si concede a passaggi espliciti come tempo fa non avrebbe assolutamente preso in considerazione, esplode in un finale tragicomico senza perdere in serietà, tutt’altro, e parla direttamente con lo spettatore sbattendogli in faccia i desideri dei personaggi che più condivide in modo didascalico assieme ai loro faccioni (facendosi provocatoriamente beffe dei primi piani del cinema giapponese classico). E in fondo parla di una sola cosa, un nuovo conflitto generazionale pronto a esplodere, e Netflix è il mezzo perfetto per farlo, quale migliore metafora al contempo extradiegetica e diegetica di un’evoluzione solo apparente? Taeko urla, giusto un momento prima dell’inizio del film-film (che inizia e finisce con la rappresentazione), di voltare pagina: “fatti una cicatrice e volta pagina”. È proprio quello che Shin – il killer – non riuscirà a fare, perché torna a vedere i fantasmi nonostante sia il responsabile di quasi tutto il sangue versato.

Una straordinaria prova di Kippei e una regia per nulla sopra le righe (rarità unica visto di chi stiamo parlando), scossa solo dal cambio di registro quando i personaggi diventano latitanti e l’azione si fa più vivace e volutamente frustrante, incorniciano The forest of love, che non è certo il capolavoro di Sono ma è uno splendido e folle paradosso che, in accordo con Netflix, doveva essere il suo film più limpido e accessibile per i novizi con la caratteristica di non uscire fuori dal seminato per non scandalizzare gli aficionados fornendo al contempo a tutti una minestra riscaldata, una specie di film-bignami, e invece è il lavoro più cerebrale e sibillino che sia mai stato partorito dal regista, nonché quello con la carica rivoluzionaria più intensa, assolutamente dissimile rispetto agli altri nonostante e apparenze e la parziale anima divertissement. Al netto di tutto, la masterclass di Sion Sono.