Sergej Loznitsa ritorna sul Lido con questo Processo di Kiev a quattro anni esatti di distanza dalla presentazione di un altro Processo che, alla luce dell’ulteriore documentario d’archivio visto ora a Venezia 2022, avrebbe potuto chiamarsi Il processo di Mosca e, in un certo senso, costituire la prima parte di una dilogia sui tribunali sovietici – o anche di una trilogia o di una tetralogia, nel caso in cui il regista avesse in cantiere altri lavori analoghi, cosa da non escludere vista la sua recente prolificità…

Risultano infatti ben evidenti fin dai primi fotogrammi le affinità con il primo Processo recuperato da Loznitsa: la breve descrizione in esterni dello sfondo dell’evento per fornire un inquadramento spazio-temporale; il pedissequo montaggio di lunghe fasi della procedura giudiziaria recuperate in archivio, con grande abbondanza di inquadrature fisse su accusa, imputati e testimoni; l’aggiunta di poche e sintetiche didascalie esplicative; la sentenza finale; il ritorno agli esterni e alla folla che ha seguito i fatti. In questo caso, inoltre, siamo testimoni anche dell’esecuzione della sentenza.

Se nel Processo del 2018, però, eravamo nella Mosca del 1930, agli albori delle repressioni nei confronti dell’élite intellettuale, militare e anche tecnica, sospettata di cosmopolitismo e spionaggio a favore dell’Occidente, qui facciamo un salto di una quindicina d’anni e di alcune centinaia di chilometri e ci ritroviamo nella Kiev del 1946. La Mosca innevata degli anni ’30 era una capitale ancora sospesa tra il vecchio e il nuovo all’altezza dell’auspicato “balzo in avanti” staliniano, mentre la Kiev dell’immediato dopoguerra, su cui, pure, ancora veglia la statua del principe Vladimir a picco sul Dnipro, è una grande città stremata dopo l’occupazione nazista e alcune delle battaglie più sanguinose di quella che nello spazio post-sovietico viene ancora denominata “Grande guerra patriottica”. Nei dintorni di viale Khreshchatik fanno capolino edifici distrutti e rottami di barricate anticarro. E il tribunale militare della Repubblica socialista sovietica di Ucraina sta predisponendo un processo di Norimberga in piccolo, dove sul banco degli imputati ci saranno alcuni esponenti delle SS tedesche più o meno in alto nella gerarchia, oltre ad alcuni collaborazionisti. Stavolta non si può mettere in dubbio che i crimini compiuti (deportazioni, pogrom, fucilazioni) siano reali, anche se, come nel caso dei processi politici degli anni ‘30, molte parti paiono svolgersi secondo un copione scritto in anticipo, con l’usuale dose di enfasi e retorica.

E, nella vita reale, prima eravamo nel 2018, e ora siamo nel 2022: a parte il fatto che nel frattempo a Mosca il concetto di “agente straniero” ha preso nuovamente piede e si sono tenuti processi di natura squisitamente politica, inutile rimarcare come la guerra russo-ucraina, che da febbraio ha assunto proporzioni del tutto inusitate rispetto al più circoscritto conflitto nel Donbass cominciato nel 2014, sia diventata un argomento di assoluto mainstream nei media e nelle arti di tutto il mondo. Toponimi come Melitopol’, Avdeevka, Kostantinovka, alcuni dei centri abitati dell’Ucraina orientale che, come sentiamo nel processo, più avevano sofferto durante l’occupazione nazista, oggi purtroppo ritornano a cadenza regolare tra telegiornali e social, insieme a foto di bombardamenti e rastrellamenti. E anche uno spettatore a digiuno di storia sovietica non può non aver notato, negli ultimi mesi, come la narrazione del Cremlino presenti le operazioni militari in corso come la vittoria definitiva sul nazifascismo, di cui il governo di Kiev sarebbe una tardiva emanazione. I cosiddetti “nazionalisti” ucraini (nella propaganda governativa russa di oggi i concetti di “nazionalismo” e “nazismo” vengono spesso e volentieri commisti), supportati dall’Occidente, sarebbero il nemico numero 1 da combattere e da sottoporre a processi anche più severi rispetto a quelli del 1946, in modo da “liberare” l’Ucraina come già avvenuto ottant’anni or sono. D’altronde, le recenti notizie sull’allestimento a Mariupol di una sala per far sedere sul banco degli imputati i combattenti del battaglione Azov sembra confermare questo desiderio ossessivo di ripetere e “perfezionare” la Storia, in modo da ridare corpo a quel “grande popolo russo” (comprensivo quantomeno di tutti gli slavi orientali) vincitore della guerra contro “la peste marrone fascista” ed esaltato anche, in The Kiev Trial, dal procuratore generale una volta emessa la sentenza – chi conosce la storia, però, sa che l’unità dell’Ucraina sovietica era già incrinata in partenza: nei dieci anni successivi alla guerra il governo centrale avrebbe avuto non pochi problemi con le attività dei partigiani sostenitori di un’Ucraina indipendente (anch’essi “nazionalisti” appunto) nella parte occidentale del paese.

I paralleli tra passato e presente risultano quindi più a proposito rispetto a quattro anni fa, e spingono senz’altro a riflettere con rinnovato vigore sulle distorsioni e sulle ambiguità della Storia. Nondimeno, The Kiev Trial, oltre ad essere simile al Trial del 2018, ne condivide anche tutti i limiti strutturali, che avevamo già passato in rassegna a suo tempo: anche se più contenuto nella durata (“solo” 100 minuti contro 125), si rivela ben presto di ardua fruizione, soprattutto per i non addetti ai lavori che non abbiano una particolare predilezione per la storia del Novecento e i paesi slavi-orientali. Le lunghe deposizioni delle parti in causa al processo qui sono tra l’altro ulteriormente “appesantite” dalle due lingue in cui vengono pronunciate (tedesco e russo, con qualche breve incursione nell’ucraino) con un conseguente raddoppiamento delle tempistiche. Il risultato è un prodotto statico, poco coinvolgente, difficilmente elaborabile e digeribile dai più.

Come già accennato, negli ultimi anni Sergej Loznitsa è particolarmente prolifico nel genere del documentario d’archivio in cui si approfondiscono alcuni nodi cruciali dell’epoca sovietica: basti pensare a State Funeral (2019), a Mr. Landsbergis (2021), a Babiy Yar. Context (2021), incentrato proprio sulla feroce persecuzione degli ebrei nell’Ucraina occupata dai nazisti, o anche a The Natural History of Destruction (2022), dove vediamo la devastazione di numerose città (da una parte come dall’altra della barricata) durante la Seconda guerra mondiale. Questa sovrabbondanza di materiale recuperato, restaurato e riportato in superficie, però, non costituisce un valore in sé e per sé, ma dovrebbe essere filtrato e assemblato con più cura alla luce di un’idea, di un messaggio incisivo da trasmettere. A maggior ragione quando, come un regista la cui biografia è legata a Bielorussia, Russia e Ucraina dovrebbe sapere benissimo, le immagini riportate alla luce riflettono episodi storici con una portata decisiva anche sulle tragedie del presente.