Siamo negli Anni ’50 in America e Andy (Sheridan) è un ragazzo piuttosto silenzioso; vive con il padre (Kier), allenatore di pattinaggio artistico. Si fa condurre da una vita isolata, fredda e piatta come una pista di ghiacco. È lì che lavora, dove affila le lame dei pattini, mentre il padre coreografa armoniosi voli danzanti. Tra i due il rapporto umano è ridotto al minimo, l’uomo prevale sul ragazzo.

Quando il padre muore, Andy viene convinto da un medico (Goldblum), che ha avuto in cura sua madre, a seguirlo prima come facchino, poi assistente, nel suo viaggio di lavoro.

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Il Dr. Wallace Fiennes è un noto lobotomista il cui metodo non è più appoggiato dai colleghi. Persona piuttosto dissoluta e distaccata, gira di ospedale psichiatrico in ospedale psichiatrico mettendo in pratica la sua tecnica agghiacciante. Andy lo segue placidamente, tenendo per sè i suoi pensieri e sogni erotici finché non incontra una giovane paziente, figlia di uno stravagante personaggio (Lavant), futuro leader di un movimento new age. L’incontro con questa ragazza scuote Andy dal suo torpore, ma non abbastanza da riuscire a trovare la giusta soluzione.

Alverson, regista di Entertaiment e The Comedy, porta a Venezia un film complesso è ambizioso, impervio quanto una dura scalata in montagna. Lavora per sottrazione e, così procedendo, tralascia preziose nozioni – informazioni sul ragazzo e notizie sull’operato del medico -, non si capisce, ad esempio che Fiennes prende forma dal dottor Walter Freeman (che effettuò la lobotomia su Rosemary Kennedy, sorella di JFK); si fa trascinare da uno strampalato monologo finale, affidato a Lavant, e perde di vista la comunicazione con il pubblico. L’intenzione del regista è quella di tracciare una metafora sulle assurde fantasie degli uomini, maschi, per rattoppare i problemi umani.

Esteticamente raffinato, anche grazie alla fotografia, attenta a mantenere una atmosfera anaffettiva, dai colori anonimi, The Mountain, nel suo indagare senza sondare l’animo umano, provoca un senso di smarrimento.