The other side of the wind è (era) l’ultima opera di Orson Welles, trascinatasi tra questioni politiche e beghe produttive fino agli anni ’70, quando è arrivata la sospensione ufficiale dei fondi che diede al film il colpo di grazia. CI sono voluti più di quarant’anni perché una collaborazione tra Royal Road Entertaiment e Netflix – coadiuvati da una coppia di tecnici certo da non sottovalutare come Legrand e Murawski, premi Oscar rispettivamente per la colonna sonora e il montaggio (il primo due volte) – portasse una pellicola come questa alla luce regalando così ai cinefili di tutto il mondo un presente insperato, dimenticato.
Qualunque persona che conosca Orson Welles conosce perfettamente le vicissitudini e la genesi di The other side of the wind, la sua forza dirompente nel portare sullo schermo un film metacinematografico che da un lato annulla le differenza tra in livelli di realtà con una pellicola che narra della sua stessa nascita e svolgimento, mentre dall’altro affronta di petto quell’annosa questione del rapporto tra Welles e i suoi protagonisti maschili (peraltro già accennato in Storia immortale, opera con cui quest’ultimo lavoro ora ritrovato condivide più di un aspetto). John Huston interpretava l‘alter ego di Welles con il nome di J.J. Hannaford, un regista iconico e dal fascino sciamanico alle prese, appunto, con una difficile situazione di produzione per quanto riguarda il film che dovrebbe segnare il suo ritorno trionfale a Hollywood dopo vent’anni – che poi era la medesima condizione del regista stesso.
Sviluppato a cavallo tra la narrazione principale, finti backstage e spezzoni della metapellicola, The other side of the wind è, e rimarrà un grande mistero, e non solo in base alla discussione intorno alla possibilità di completare film di altri registi. Anzi, ci sarebbe tanto da discutere tanto esclusivamente intorno al processo di produzione di questo film, a partire proprio dall’indagine accurata che si può condurre per portare un inedito altrui innanzi al grande pubblico. Lungi dal voler lambire le dinamiche della proprietà intellettuale (di cui ci interessa poco, ma anzi, a persone come Max Brod continueremo a rendere grazie, se passate l’analogia), si discute attorno alla purezza con il quale questo processo può essere portato a termine – vedremo il film di Orson Welles? Vedremo una sua parodia? Non era ancora definitivo all’epoca quindi è un capolavoro a metà? O ancora, forse ci sarebbe da interrogarsi sul rapporto tra la leggenda del cinema e i suoi stessi film, considerando Welles come un maestro intoccabile da questo punto di vista. Inoltre, sarebbe opportuno aprire una dibattito anche sul ruolo di Netflix in tutto questo, specie per come gioca la sua partita distribuendo The other side of the wind. Che sia un melenso tentativo di accaparrarsi l’attenzione del pubblico che nelle loro tabelle di bilancio avranno ridenominato “purista”, una captatio benevolentiae così rozza da ricordare le descrizioni letterarie ottocentesche dell’inadeguatezza dei borghesi alle feste dei nobili, o ancora una semplice dichiarazione di potere – poi un giorno del senso di distribuire film del genere su tablet, cellulari e tra poco anche microonde qualcuno dovrà render conto, ma torniamo a far finta di essere liberali e simulare la convinzione che un fatto del genere non meriti assolutamente la rimozione coatta dei bulbi oculari – tutto questo, il non-film, in fondo non ci interessa per nulla.
Praeteritiones a parte, quello che ci deve interessare è appunto l’opera. Il film e nient’altro, almeno per una volta. Allo stesso modo come è impossibile da inquadrare è impossibile anche da valutare, perché la sua proiezione non corrisponde al suo contesto. L’aspetto su cui focalizzarsi è la straordinaria modernità con cui The other side of the wind è in grado porsi, la sua meticolosa volontà di non farsi seguire così tanto per. Il montaggio serrato, i movimenti a schiaffo, il ritmo dei dialoghi, la successione delle immagini, il suo essere, in una parola, forsennato, insieme alla sua locura di alcol trangugiato violentemente, pugni, calci, insulti, urla, risate isteriche, nani dispettosi, umiliazioni, massime, nudità palesate, registi che diventano attori come Huston e Bogdanovich in gioco di prendi e riprendi, e infine la figura di imponente regista. Non vedremo mai film di Welles, come lui lo aveva pensato, poco ma sicuro, questo è un regalo fatto a una comunità che ha sempre sognato un’occasione del genere, un colpo di coda capace di riscrivere la realtà facendo di fatto di ogni cinefilo un bimbo emozionato che si sfrega le mani; é da leggersi come un omaggio.
Ma questo è un pensiero secondario, a essere generosi, quello che emerge veramente è una seria rappresentazione dell’Orson Welles personaggio, della sua capacità di interpretare la parte al di fuori del postazione dietro il monitor. Huston/Welles/Hannaford sono tre frazioni di quella è la disamina metacinematografica e metareale più grande di tutte in quest’ambito, quella del ruolo dell’autore cinematografico come declinazione dell’artista, al netto di esigenze della produzione, volontà degli attori, o limiti imposti dallo stato delle cose stesse, che assume le fattezze di una divinità. Il Padreterno nel senso classico ha davvero poco a che vedere con questo concezione, sarebbe più opportuno assimilare a quest’immagine alla figura di un demiurgo, un’entità superiore deeticizzata e depoliticizzata dotata di un’incommensurabile potere creativo, nelle cui mani riposa un’autentica capacità di plasmare, di dare fisicamente forma alle cose, facendo così arte nel più puro dei modi; e sappiamo tutti come sia stato Orson Welles ad andare a rappresentare il vero prototipo del regista-dio nel corso degli anni, il primo vero autore, nel senso vero e primigenio della parola.
Ingiudicabile e altrettanto oscuro – come una divinità impossibile da cogliere nella sua pienezza – rimane The other side of the wind, un’ultima possibilità di ammirare il genio quando non sospettavamo nemmeno di poterlo fare. Non c’è retorica in questo, nessuno ha quella comunanza con quel tipo di film ormai, è passato nel senso di tradizione. Non appartiene alla dimensione di questo cinema, quello che vediamo e di cui scriviamo, ma al cinema che precede il nostro, che a un livello sinceramente sentimentale nessuno potrà mai più conoscere completamente.