“The Road to Mandalay” di Midi Z

(Poche) lacrime e (troppo) sangue

The Road to Mandalay

Titolo di chiusura della categoria Open Doors, The Road to Mandalay (2016) arriva a Locarno due anni dopo l’ultimo film di finzione – i.e. Ice Poison (2014) – del regista e documentarista birmano naturalizzato taiwanese Midi Z, che con poche, infelici mosse trasforma quello che poteva essere un resoconto equilibrato in un melodramma all’acqua di rose.

Dopo una difficile e costosa traversata, LiangqingWu Ke-Xi – è finalmente giunta in Thailandia. Tra quelli che come lei hanno lasciato la Birmania c’è anche GuoKo Kai, che abbiamo visto l’ultima volta in Mon Mon Mon Monsters (2017) di Giddens Ko –, che mostra da subito una predilezione per lei. Inizia così il calvario di entrambi per ottenere il visto lavorativo e abituarsi al nuovo ambiente, ma i profittatori sono dietro l’angolo.

The Road to Mandalay

È un problema che i cineasti asiatici non si rassegnano a tacere quello della tratta degli esseri umani e del flusso di migranti economici all’interno dei Paesi dell’ASEAN: un’odissea che comincia nelle aree periferiche, come il Laos o l’Indonesia – si pensi a Crossroads: One Two Jaga (2018), selezionato al FEFF – per arrivare un bel giorno nella terra promessa, a Taiwan o Singapore – la realtà che fa da sfondo all’indagine del detective Lok in A Land Imagined (2018), in Concorso qui a Locarno. In questo scenario, la Tailandia è il crocevia, il Purgatorio in cui i dannati intravedono la luce e tirano, spesso troppo presto come i nostri protagonisti, un sospiro di sollievo.

Mettendo a frutto le recenti esperienze nel cinema del reale, Midi Z – vero nome Chao Te-yin – prende le distanze, quantomeno in prima battuta, dal pietismo nei confronti degli esuli. Il viaggio fino a Bangkok, la ricerca dell’impiego e lo sfruttamento degli operai sono descritti con distacco, facendo parlare i fatti senza provare a impressionare lo spettatore: la caratterizzazione è minimale, i dialoghi scarni e realistici, i movimenti di macchina assenti. Tuttavia The Road to Mandalay non fa mistero della propria natura di film narrativo, e in quanto tale dovrebbe pervenire a un esito. Ed è qui che iniziano i problemi.

The Road to Mandalay

Non sapendo come uscire dall’impasse di una trama che di fatto non c’è, il regista/sceneggiatore concentra negli ultimi minuti quanti più avvenimenti tragici possibili, in modo da fornire i presupposti per motivare l’exploit di Liangqing e Guo: l’una si dà alla prostituzione – la scena della sua prima notte di “lavoro” è descritta con un simbolismo spicciolo –, l’altro alla droga – o almeno così ci sembra di capire dalla brevissima sequenza in cui fuma da una strana pipa. La frustrazione per un amore non ricambiato e, soprattutto, non consumato, porta Guo a commettere il fattaccio del finale, in un profluvio di sangue. Una soluzione gore che invece di scuotere fa sorridere per la sua ingenuità.

Rovinandosi con le sue stesse mani, Midi Z butta alle ortiche quello che poteva essere un buon soggetto per fare introspezione e analizzare in chiave psicologica la condizione di chi non sa più dove siano le proprie radici.