Tra gli argomenti più dibattuti nei giorni immediatamente precedenti all’inizio della 79esima edizione del festival veneziano c’erano sicuramente le interpretazioni di Cate Blanchett in TÁR e Brendan Fraser in The whale, già in odore di oscar e forse anche di coppa Volpi, secondo divinatori e veggenti della stampa specializzata. Quantomeno l’hype era già da subito altissimo, e ragionevolmente giustificato da quanto visto finora per ciò che riguarda entrambi gli interpreti. Due prove attoriali simili e molto cariche, diversificate dal contesto di partenza: TÁR ha tutta una serie di debolezze strutturali che The whale invece non ha, anzi, l’imbastitura prescinde l’interpretazione del protagonista e certifica una certa idea dietro il progetto.
Un progetto che Darren Aronofsky – ormai di casa al Lido: questa è la sua quinta partecipazione – ha inseguito per più di dieci anni in attesa di trovare la quadratura del cerchio per adattare lo spettacolo di Samuel D. Hunter per il grande schermo, senza tuttavia snaturarne l’impostazione iniziale, rimasta infatti squisitamente teatrale. The whale è ambientato per intero nell’appartamento di Charlie (Fraser), professore di letteratura inglese dalla massa atomica pari a duecentosettantacinque chili, risultato del dolore insopportabile per la perdita dell’amore di una vita affogato invano nel cibo. Charlie aveva abbondonato moglie e figlia per inseguire il sogno di un’esistenza autentica con l’uomo che amava dopo aver faticato a vivere appieno la sua omosessualità per via dell’ambiente in cui era cresciuto. Ora che dieci anni dopo il suo cuore sta per essere stritolato dall’adipe, Charlie non ha altro desiderio se non quello di riallacciare il rapporto con la figlia (Sadie Sink, la Max di Stranger things) per rimediare agli errori commessi.
Non c’è un singolo momento in cui The whale non porti con sé una opprimente sensazione di claustrofobia, scaricata sullo spettatore facendogli percepire un duplice disagio, fisico e psicologico, attraverso la corporeità inconsueta di Charlie, animo sensibile sepolto sotto una montagna di sofferenza fossilizzata sotto forma di lipidi, e la sua imponente mole prostetica pronta a deludere ogni giorno di più le scarse aspettative di quel che rimane della persona sepolta là dentro; attraverso la scenografia asfissiante, limitata alle stanze del nostro, ben lontane dall’essere un rifugio per Charlie e simili invece a un percorso a ostacoli, estensione di un corpo difficile anche solo da manovrare, con l’unico pregio di preservarlo dall’incompatibile spazio urbano; attraverso l’aspect ratio scelto per comprimere la dimensionalità del film e del protagonista, alle prese con una versione tutta sua della sindrome locked-in, con un 4:3 che sa di prigione.
E in questo carcere interno ed esterno entrano di volta in volta le poche persone con cui Charlie ha ancora contatti: l’infermiera, l’ex moglie, un missionario petulante e ovviamente la figlia. Dialogo dopo dialogo, monologo dopo monologo, il film procede verso un crescendo emotivo e patetico che culmina nella scena madre pregna di retorica che sancisce l’impossibilità dell’essere umano di compiere la scelta di non amare. The whale è un film sulla speranza in fin dei conti, un film di buoni sentimenti e dal finale agrodolce molto hollywoodiano nello spirito e negli intenti che tradisce le ambizioni autoriali del regista con la sua sofisticata messa in scena. Da un lato un’interpretazione toccante (pur costruita a tavolino) di Fraser, un personaggio che sa tirare fuori il meglio o i sentimenti più in profondità da qualunque persona con cui parli, e una storia di speranza ed empatia non troppo distante nell’anima da un film per famiglie; dall’altro un Kammerspielfilm intimista carico di echi della stagione del covid, e soprattutto una riflessione che attraversando una sottile ma continua citazione di Moby Dick – la ragion dell’accostamento è lampante – traccia un sottile parallelismo tra la coscienza di Achab, che mai riuscì ad affrontare davvero i suoi demoni, simboleggiati dal capodoglio che riemerge dagli abissi, e quella di Charlie, la cui obesità, come la balena bianca più famosa della storia della letteratura, è un costante promemoria dei rimpianti della sua vita. Non ce n’è poca di letteratura in The whale, tutt’altro.
La parte più interessante dell’opera è proprio quella relativa alle dinamiche della corporeità: come in The wrestler, con cui Aronovsky fu premiato con il Leone d’oro nel 2008, il declino personale viene assorbito dal piano fisico. L’identità di Charlie è una cosa che muta assieme al suo peso, non un sostrato fissato sotto gli spessi strati di grasso, e di pari passo la sua mobilità in progressiva riduzione si ripercuote sulla sua visione del mondo, limitata a divano, poltrona, letto: lo spazio in cui vive è la struttura indissolubile che vincola la sua esperienza. È così strano avere o essere dentro un corpo – scrive Cărtărescu in Solenoide -, che risuona come una bizzarra attestazione della perfetta corrispondenza tra il dolore che non smette di pulsare nel cuore di Charlie e il grasso che si accumula su addome, faccia, gambe (come da manuale del body horror). Il corpo è tanto un carcere quanto è a sua volta vittima di reclusione. La spazialità come sistema e processo di significazione è un principio di matrice perechiana che trapassa il film da parte a parte.
Abbiamo a che fare con un film costruito appositamente per competere a livello commerciale, lineare e diretto, che punta tutto sull’immediatezza dell’immagine e sull’esercizio del patetismo – in netta contraddizione con gli abituali virtuosismi di Aronofsky che in genere non si fa mai pregare quando c’è da andare sopra le righe – e la direzione del suo attore di punta, ma è anche un insieme di considerazioni eterogenee sullo spazio visibile, quindi filmabile, e sui rapporti fra dimensioni a livello filmico. Le suggestioni che si possono intravedere in The whale, morbido come il pancione di Charlie, sono parecchie: un episodio speciale di Vite al limite, la classica storiella strappalacrime, una calcolata ponderazione metacinematografica; probabilmente ci sono tutte, e si tratta di un convivenza più contorta di quanto non possa sembrare. In ogni caso, nessuno potrà dire a Brendan Fraser “spostati così vedo il film” come succedeva con Orson Welles, alludendo a suo narcisismo.