VENEZIA – Attesissima, seguitissima dai media nella sua genesi e presentata in prima mondiale martedì 22 febbraio, quasi fosse un’apertura di stagione, Le baruffe, su musica di Giorgio Battistelli e libretto di Damiano Michieletto in cartellone fino al 4 marzo, è la risposta ai tanti Soloni che vagano per i teatri e i social inveendo contro le regie “moderne”, quelli del “si scriva un’opera sua, se ne è capace” e che predicano urbi et orbi la morte del melodramma che invece è vivissimo e attira un campionario eterogeneo di spettatori. Lo dimostra la sala pienissima di questo debutto: molti giovani, maschere, qualche turista, abbonati, babe, neofiti, paganti, invitati e stampa varia. Michieletto se l’è scritta la sua opera, adattando il celebre testo goldoniano, e a metterci le note è Battistelli che ritorna a Venezia dopo Il medico dei pazzi del 2016 e Richard III, capolavoro datato 2005 arrivato qui solo nel 2018 e vincitore del prestigioso Premio “Franco Abbiati” 2019. Oltre che dal vivo, la serata è stata trasmessa in diretta su Rai Radio3 e sul canale Youtube del Teatro, sulla home del “Corriere della Sera”, “Corriere del Veneto” e del “Gazzettino”, raggiungendo così anche il pubblico virtuale.
Dopo Aquagranda, richiesta dal Teatro La Fenice a Filippo Perocco nel 2016 e che fu vera e propria liturgia profana per la città nell’anniversario dell’alluvione, il Teatro veneziano guarda ancora alla realtà locale per una nuova produzione, rinsaldando ancora una volta il fondamentale rapporto col territorio. Commissionata infatti per i 60 anni della Marsilio Editori, che dal 1993 cura l’edizione nazionale dei lavori di Carlo Goldoni, Le Baruffe è “teatro per musica”, come le definisce Battistelli, che unisce i due grandi amori di Michieletto, la prosa e la lirica. Ricordiamo ancora con emozione Il ventaglio, unica incursione goldoniana del giovane regista. Le baruffe rimangono chiozzotte nella lingua, descrivendo un luogo abitato da una pluralità di anime. Città quella di Chioggia che nel prologo, invero impercettibile, viene definita tramite termini tratti dal testo originale quali nomi propri, venti, pesci, ingiurie. Questo slancio iniziale torna nella vicenda che si fa più violenta che giocosa, come suggerisce la musica di Battistelli di cui Michieletto coglie il lato carnale e strutturale, volendo essa essere riproduzione ritmica del dialetto parlato. Come nello scorso Macbeth e Rigoletto, è palese il feticismo per certi oggetti scenici assurti a simboli, se non a silenziosi personaggi, rappresentato da quella afrodisiaca fetta di zucca, motore di una storia ciclica dalle venature brechtiane. C’è la commedia, poca, perché l’umanità in questo affresco corale è impegnata in un rito collettivo, la baruffa appunto, necessario per portare avanti la vita che non è sogno, ma povertà sociale.
Paolo Fantin sviluppa con felice coerenza di mezzi la doppia angoscia presente nel testo, quella emotiva e quella atmosferica dello scirocco e della nebbia, ricreata attraverso “macchine dell’inquietudine” che trovano nel light design di Alessandro Carletti e nelle proiezioni di Sergio Metalli necessario completamento. Come uscita dalle tele del Longhi e del Ceruti, è un’umanità melmosa, fangosa, senza trucco e parrucco quella delle Baruffe e i costumi di Carla Teti ce lo ricordano bene, così com’erano volutamente sudici quelli del mitico Don Giovanni di ben dodici anni fa. I movimenti coreografici di Thomas Wilhelm accompagnano il disfacimento della scena, dei wall di legno che i chioggiotti distruggono per darsele di santa ragione.
L’orchestra, sotto la direzione di un ispirato Enrico Calesso, dà forza e ritmo ai diversi caratteri in azione, facendo risplendere una partitura piena di timbri e accenti che esasperano i contrasti e inducono nell’ascoltatore particolari stati emotivi. Parte preponderante ce l’hanno le percussioni a cui fanno da contraltare vocalità lanciate al registro acuto e mostrate nella maggior varietà possibile.
Sono loro, le chioggiotte, a dettar legge e il quintetto scelto è ben amalgamato. Si distinguono la Checca combattiva di Silvia Frigato, l’autorevole Madonna Pasqua di Valeria Girardello e la Lucietta di Francesca Sorteni. Bene anche Loriana Castellano (Madonna Libera ) e Francesca Lombardi Mazzulli (Orsetta).
Tra i signori spiccano il Toffolo di Leonardo Cortellazzi, lo squillante Titta-Nane di Enrico Casari e l’Isidoro di Federico Longhi. Negli altri ruoli si disimpegnano meritevolmente Alessandro Luongo (Padron Toni), Marcello Nardis (Beppo), Rocco Cavalluzzi (Padron Fortunato) e Pietro di Bianco (Padron Vicenzo).
A Safa Korkmaz il compito di vendere la zucca e a Emanuele Pedrini quello di comandador, commentatore sornione del coadiutore Isidoro.
Non solo protagonismi, c’è anche un popolo che fa da eco, il coro ben preparato da Alfonso Caiani, sotto una scrittura vocale esigente, in chioggiotto, fatta di note cantate e di effetti sonori particolari.
Dieci minuti di applausi per tutti alla prima del 22 febbraio con ovazioni particolari per Battistelli, Calesso e il cast tecnico.
Luca Benvenuti