Lungometraggio d’apertura di questa Settimana della Critica, Tumbbad di Rahi Anil Barve e Adesh Prasad è un contenitore formidabile di influenze e generi: horror spettacolare, commedia picaresca, melò bollywoodiano e fantasy esotico insieme, ciascuna etichetta si rivela azzeccata e al contempo riduttiva per definire il prodotto nel complesso.

Nel piccolo villaggio di Tumbbad in India sopravvive il culto di Hakkar, divinità decaduta a causa della sua avarizia. La madre del giovane VinayakSohum Shah – serve l’abate del tempio locale, nella speranza che alla sua morte le riveli il nascondiglio del tesoro custodito dal dio. Quando ciò non accade, una serie di sfortunati eventi porta Vinayak a perdere il fratello e ad abbandonare la propria casa, con la promessa di non ritornarvi mai più per sfuggire alla maledizione che il tesoro porta con sé. Ma Vinayak è testardo, e diventato adulto non ci penserà due volte a venir meno alla parola data.

Tumbbad

Raro che una sceneggiatura frutto di ben quattro menti – oltre ai già citati registi sono accreditati Mitesh Shah e Anand Gandhi – riesca a mantenere un elevato grado di stratificazione senza sacrificare la chiarezza o la godibilità dell’insieme. Tumbbad, prima prova alla regia di un lungometraggio per entrambi Anil Barve e Prasad, è uno di quei rari casi in cui il gusto per il bel racconto, senza vincoli di morale, raggiunge il suo apice.

Seguendo il Bildung dell’adorabile canaglia che è Vinayak – personaggio che sembra tagliato su misura per Shah –, lo spettatore è inevitabilmente portato a parteggiare per il personaggio più negativo. E diciamo «più negativo» a ragion veduta, dal momento che in questo film non ci sono personaggi positivi: suo ulteriore merito è appunto quello di muovere oltre il manicheismo della tradizione popolare, cui pur attinge a piene mani per dar forma all’immaginario esoterico su cui fa affidamento.

Ancor prima degli stupefacenti effetti speciali e delle scene di orrore sanguinario – amanti del gore siete avvertiti –, a turbare è proprio la constatazione degli autori sull’animo umano: l’avarizia si trasmette come una malattia di padre in figlio, e si diffonde rapidamente. In questo senso, le parole del mahatma Gandhi che aprono la pellicola: «Sulla terra c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per soddisfare l’ingordigia di pochi» non sono un semplice monito moralistico: questa stessa “ingordigia”, operando attraverso uomini come Vinayak, ha permesso che l’India e la sua cultura finissero sotto il giogo britannico. La Storia – gli anni di vita di Vinayak, giunti al termine nell’anno dell’indipendenza (1947) – è specchio della storia e viceversa.

Tumbbad

Più raffinato di quanto non dia a vedere, Tumbbad si rimette in discussione nello spazio di una manciata di minuti, facendo credere allo spettatore di star guardando di volta in volta un film diverso: non mancano un paio di sequenze dedicate alla “dissolutezza” orientale, ai balli e alla commedia pura, funzionali, come si diceva, a farci dimenticare il quadro d’insieme. La maledizione riesce così a costituire per tutta la durata un deterrente efficace in quanto elemento che, non si sa quando, tornerà per certo a demolire le nostre speranze.

Riuscendo anche ad affrontare con una certa accuratezza la questione delle donne e delle scarse tutele loro garantite nella società indiana – di ieri come di oggi, suggerisce il sottotesto –, Anil Barve e Prasad raccontano il proprio Paese ricorrendo alla fiction nella miglior accezione, riuscendo a intrattenere senza per questo rinunciare alle proprie pretese autoriali.