Il 9 maggio è per i russi, ma anche per tutti quei popoli o gruppi sociali e politici che si identificano con l’eredità dell’Unione Sovietica, il giorno in cui si celebra, ricorda e festeggia il “Giorno della Vittoria”, ossia la sconfitta del nazifascismo cui parteciparono milioni di soldati dell’Armata Rossa, nella sua composizione multietnica e multinazionale. Loznica ha seguito i festeggiamenti che hanno avuto luogo nel 2017 a Berlino, in uno dei più importanti e solenni memoriali dedicati ai caduti sovietici, il Treptower Park.
Con questo Den’ pobedy (“Il giorno della Vittoria”) Sergej Loznica porta a compimento una sorta di “trilogia delle masse”: dopo Majdan e Austerlitz egli disegna un’ulteriore ala in quella che potrebbe essere definita una sua pala d’altare documentaristica dedicata alle conseguenze a lungo termine dei grandi regimi autoritari del XX secolo (lasciamo coscientemente da parte The Event, che è tipologicamente disomogeneo, in quanto montaggio di materiali d’archivio). Se osservando a distanza i tumulti di Kiev egli fotografava il tentativo compiuto da parte degli ucraini di rendersi autonomi dalla invadente eredità storica grande-russa/sovietica, con gli ultimi due documentari egli studia due declinazioni inverse ma complementari degli effetti catastrofici del nazismo.
In Austerlitz seguivamo svogliate torme di turisti a caccia di selfie davanti ai forni crematori, in una decontestualizzazione totale che faceva leva sul contrasto fra la serietà del luogo e l’inadeguatezza dei visitatori; qui invece siamo testimoni di una non totalmente riuscita celebrazione di coloro che a quello scempio disumano misero appunto fine, ossia le migliaia di ragazzi dell’Armata Rossa (russi, ucraini, baltici, ebrei, musulmani, caucasici…), che meriterebbero sicuramente maggiore rispetto, essendo invece ormai il loro sacrificio in parte utilizzato anche a fini di sostegno propagandistico per fini politici attuali.
Se ci è concesso un termine che va inteso in senso meramente descrittivo, si tratta in certo senso di una “carnevalizzazione”, di una messa in scena che utilizza strumenti visuali e culturali tesi alla ri-attualizzazione modificata e strumentale degli importanti valori ideologici in gioco. In tutte le comunità russe in patria e all’estero infatti, in occasione del giorno che Stalin istituì come festa per la vittoria sulla Germania nazista, molti partecipanti, persino bambini, si vestono a tema, indossando divise militari, nastri di San Giorgio (dal 2005 trasformati in simbolo imposto e caratterizzante del patriottismo putiniano) e avvolgendosi di bandiere russe e sovietiche, oltre a cantare inni tradizionali e patriottici e ad esporre foto o cimeli di parenti che sacrificarono la propria vita nella lotta contro il nazismo.
Alla base di tutto ciò c’è, dunque, un’occasione di giusta e più che condivisibile commemorazione, senonché la storia di tale festa si ammanta fin dall’inizio di significati leggermente distorti e poi fortemente polarizzati dal regime staliniano, significati e valori che negli ultimi anni sono stati forzosamente asserviti alla autorappresentazione retorica e muscolare del regime putiniano (per i più curiosi rimando a questo articolo di Gian Piero Piretto, testo imprescindibile per comprendere la storia della manifestazione: http://www.doppiozero.com/materiali/cartoline/mosca-9-maggio-2015). Si perdonerà l’ampio preambolo, funzionale però ad inquadrare le modalità con cui interviene Loznica.
Il regista ucraino-bielorusso inizia presentando alcuni dei gruppi che negli ultimi anni si sono guadagnati posizioni mediatiche di primo piano grazie al loro appoggio incondizionato alle dottrine e pratiche geopolitiche della Federazione Russa: in occasioni del genere essi sfoggiano immancabilmente i propri vessilli, in maniera forse anche più consistente di quanto non facciano con quelli storicamente legati agli avvenimenti commemorati, rubando in maniera anche forse poco rispettosa spazi celebrativi che non appartengono loro, e trasformando in parte una manifestazione di pacifica memoria antinazista in un circo patriottardo ad uso e consumo dell’immagine forzosamente imposta di una Grande Russia pronta a “ripetere” l’invasione dell’Europa (come dicono alcuni slogan e “meme” filogovernativi diventati popolari negli ultimi anni): se l’Europa non si comportasse in modo adeguato, i successori dell’Armata Rossa potrebbero tornare a “darci una lezione”, questo il sottotesto. Si vedano in questo senso i membri del primo gruppo inquadrato secondo le consuete dinamiche di (apparente) neutralità osservazionale, ossia i “Lupi della notte”, biker muscolosi e poco raccomandabili guidati in patria da un energumeno non eccessivamente raffinato da un punto di vista argomentativo che si fa chiamare “il Chirurgo”, e sempre pronti ad omaggiare Stalin e gli “uomini forti” dell’Unione Sovietica in ogni manifestazione pubblica. O ancora, ben collegati ai primi, i portatori di vessilli delle repubbliche autoproclamate di Luhansk e Donec’k (anch’esse di chiare simpatie autoritario-staliniste), ovvero i territori ribellatisi al governo ucraino su suggerimento e con il malcelato sostegno militare di Mosca.
Com’è suo solito Loznica non esprime direttamente giudizi su queste accozzaglie di nostalgici con bandiere sovietiche e ritratti di dittatori (anche se è ben nota la sua avversione nei loro confronti), ma con uno sguardo leggermente ironico li inquadra mentre si avvolgono in bandiere di stati immaginari come la famigerata “Novorossija”, uno dei territori fantastici ipotizzati dal neo-imperialismo grande-russo a scapito di altri stati sovrani, o mentre si stringono in una foto-ricordo da culturisti decerebrati, neanche fossero il circolino della boxe degli scaricatori di porto di Livorno. Oltre a sparuti rappresentanti del putinismo provenienti dai vari paesi come Bulgaria o Serbia che si riconoscono in vecchie idee di reciprocità panslavista, fra i vari gruppi che purtroppo usano maldestramente quello che dovrebbe essere un giorno di omaggio ai caduti, Loznica inquadra anche un capannello organizzato da un sedicente partito comunista tedesco che lamenta come in realtà il “fascismo sia ancora al governo” (curioso è che essi possano liberamente esprimersi proprio perché la Germania di Frau Merkel è invece un paese democratico e garantisce il diritto di parola a tutti, tranne che ai neonazisti…).
Questa è la pars destruens dell’argomentazione lozniciana. Ma al di là di questi personaggi in cui la passione per “uomini forti” e la fervente critica anti-europea o anti-europeista vanno spesso di pari passo con qualità intellettuali limitate, in realtà per il resto del film lo sguardo del regista si arricchisce di toni emotivi e lirici che raramente avevamo notato nella sua tavolozza espressiva. In quella che è infatti la pars costruens (o per lo meno dialogante) del suo documentario, egli si avvicina agli oggetti della sua osservazione, in senso fisico e traslato, flirtando quasi con quelli che potremmo chiamare eredi di un’idea svanita (non diremo “sconfitta” per non offendere i nostri amici nostalgici filo-sovietici), e lo fa utilizzando a tratti anche un montaggio molto più spezzato e avvolgente del suo solito, quasi costretto a fare delle concessioni rispetto a certe eccessive neutralità di messinscena del suo metodo di ripresa dall’intenso portato emotivo della materia e dall’innegabile enorme rispetto dovuto ai soldati caduti.
Da un regista con una carriera e soprattutto con una posizione politica e civile come quella di Loznica non ci saremmo aspettati un tale possibilismo, una tale apertura nei confronti di questi “sopravvissuti” alla grande congerie multinazionale siglata URSS: eppure la scelta finale delle manifestazioni concrete, festose e inclusive, che egli decide di inanellare nel suo montaggio definitivo sembra dialogare con l’“altro”, con questi “fantasmi storici” e offrire per lo meno l’onore delle armi a quanti in queste celebrazioni continuano incessantemente a tenere lo sguardo rivolto ai bei tempi andati della propria infanzia, dimenticando forse un po’ la vera essenza dell’evento, che dovrebbe essere incentrato sulla pietas, il rispetto assoluto delle vittime e una auspicabile ritrovata fratellanza europea e non sulla volontà di riportare indietro le lancette della storia o sulla pubblicità ai propri deliri politici.
Alcuni esempi: i balli che coinvolgono la bella signora russa leggermente agée e i fieri danzatori caucasici, il gruppo folklorico ucraino che canta nella propria lingua malinconici testi tradizionali, il miscuglio naturale e festoso di coloro che (come canta una riproposizione adeguata del “Born in the USA” di springsteeniana memoria) erano nati nell’URSS…tutto ciò rievoca elementi di effettiva comunanza culturale che trascendevano il dettato imposto da censure varie e propagande politiche. Loznica, insomma, è come “costretto” a riconoscere, ricordare, quasi celebrare la fratellanza dei popoli, la collaborazione fra etnie e lingue diverse, una condivisione di tradizioni ed emozioni che nei balli e canti del 9 maggio 2017 ci vengono restituiti in tutta la loro sincera spontaneità, e lo fa pur senza abbracciare in toto lo spirito nostalgico che anima la manifestazione.
È forse un Loznica nuovo quello che vediamo qui, o per lo meno l’antesignano di un nuovo Sergej, che potrebbe diventare più aperto e partecipativo, meno asettico e squadrato, che perde in osservazionalità pura ma guadagna in emotività, e che riesce comunque a regalarci una chicca quando nel finale inquadra fra i festanti nostalgici in uscita dal parco dei divertimenti comunista Davide Rossi, membro del “Partito Comunista della Svizzera Italiana”, sostenitore convinto del regime della Corea del Nord (!), putiniano e comunista ad un tempo (il che è un po’ come dire macellaio vegetariano), giusto comunque per ricordarci che, Loznica o non Loznica, c’è ancora molta confusione mentale sotto il sole del (non più) avvenire…
Bisognerà che io riveda questo film, intenso e difficile per me a causa della carica emotiva che trasmette, ma confesso che pur essendo io fiero antistalinista e moderato antisovietico, il groppo in gola in nostro buon Sergej me lo ha fatto venire, insieme al desiderio di tornare a Treptower Park. Da solo, di notte, in silenzio.
Comunque, sempre e dovunque, rispetto e riconoscenza perenne per i soldati dell’Armata Rossa che morirono per abbattere il nazifascismo.