La terza proiezione della Piazza Grande è un felice ritorno sugli schermi ticinesi, trattandosi di Sandra Nettelbeck, che vide già venire accettati i certamente non eccelsi Ricette d’amore e Mr. Morgan’s last love nel concorso internazionale del festival locarnese di questo secolo: Questa volta compete per il Prix du Public della 71esima edizione.

Al centro del suo cinema c’è sempre un uomo tormentato, in questa occasione si tratta dello psicoterapeuta Max, divorziato e incapace di ricominciare, in grado di relazionarsi solo con i figli e la moglie, finendo sempre per farsi trattare con condiscendenza da entrambi, la cui vita subisce un radicale cambiamento quando nella sua routine lavorativa spesa ad affrontare pazienti uno più tragicomicamente complicato dell’altro irrompe Sophie, donna ludopatica, rispettando lo stereotipo, certamente non fortunata in amore. Ella sconvolgerà Max, diviso tra il nuovo e fortissimo sentimento e l’istinto di autoconservazione.

Se il rapporto tra Max e Sophie è il fil rouge che tiene legato il film, non si può inquadrare Was Uns nicht umbringt se non come un film corale, in cui s’intrecciano le vicissitudini dei pazienti di cui sopra in modo da permettere loro di affrontare le loro difficoltà, o almeno dovrebbe essere così. La Nettelbeck rimane attaccata all’impostazione che usa sin dal suo primo film, peccando sempre non tanto, quindi, nell’aspetto realizzativo, quanto in quello fondamentale, che sta alla base. Inutile girarci intorno, il film non funziona perché è un’accozzaglia di frasi fatte e banalità precostituite tenute assieme da un’idea di esistenzialismo messa in piedi collezionando cartine dei biscotti della fortuna. Scivola tranquillamente nel ridicolo involontario nell’illustrare le vite da soap dei suoi personaggi, le loro traversie amorose mucciniane e i loro problemi psicologici che presto divengono “dell’anima”, interrogativi ancestrali dell’essere umano, almeno secondo l’opinione di chi l’ha scritto. Ciò che lo distingue, in modo peraltro così negativo, rispetto agli altri film della regista tedesca, è la pretenziosità, nei dialoghi, nella tecnica di realizzazione, nella direzione degli attori. Questi ultimi sono forzati a caricare l’interpretazione fino alla nausea, chiusi in una serie interminabile di primi piani che insistendo sul sentimento della prova finiscono per apparire quasi comici.

Tecnica semplice e lineare che nel suo reiterarsi è tutto fuorché cinematografica. Il discorso analogo vale anche per la scrittura, enfatica e pomposa, e per una gestione del ritmo da televisione: un montaggio ansioso di ottenere l’attenzione dello spettatore a tutti i costi si svela via via sempre più rapido, mentre scelte musicali e organizzazione delle tempistiche risultano inadeguate a seguire la narrazione, spezzando la tensione, come a offrire dei momenti di pausa per rendere Was Uns nicht umbringt un film da domenica pomeriggio ancor più di quanto non sia. Ma anche al di là di tutto ciò, qualsiasi analisi, sommaria come questa o sensibilmente più approfondita, se mai potesse accadere un tale evento, avrebbe la sua radice nell’assoluta banalità del suo materiale originario, di un livello culturale bassissimo, a partire dai figli ribelli e la madre iperprotettiva fino agli impresari funebri depressi, riprendendo dal cinico uomo d’affari per concludersi con la figura che s’arrabbia con il mondo in seguito a un lutto –  tutti gestiti come se la loro caratterizzazione fosse stata costruita sulle prime righe di Wikipedia delle definizioni appena date.

Was Uns nicht umbringt è un film di bassa lega, risibile nelle sue esagerazioni patetiche e snervante nella seriosità che lo ammanta; non si tratta affatto di cinema, ma di letteratura illustrata, e della peggior specie, cioè quella che non lascia nemmeno un ricordo affettuoso di ridicolaggine, ma solo esasperazione per la puerile pretenziosità con cui si mostra sullo schermo.