Il giorno dopo l’apertura ufficiale prendono il via anche le sezioni minori di Locarno 71, tra cui la solita, intramontabile Panorama Suisse, una categoria certo di rilevanza mediatica quasi nulla, rispetto a tutto il resto del festival, atta principalmente a promuovere il cinema nazionale, che, analogamente alle altre sezioni, ogni tanto però riesce a stupire con quale film isolato.
Where are you, João Gilberto? si può inserire in questa lista perché di fatto rappresenta un documentario molto interessante, che tratta un argomento unico nel suo genere attraverso un personaggio ancor più unico come quello di João Gilberto, geniale cantautore e plasmatore del genere della bossa nova nel Brasile degli anni ’50 e ’60, tutt’ora in attività. Lo stesso regista si presenta davanti alla sua macchina da presa e lo fa come un novello Sherlock Holmes svizzero, con tanto di assistente e collage riassuntivi, e armato di una forte volontà di seguire le orme di Marc Fisher attraverso tutto lo stato sudamericano per provare a rintracciare Gilberto. Fisher era uno scrittore tedesco che scrisse forse la prima vera monografia su João Gilberto, la cui decisione di suicidarsi però non ha influito – al contrario di quanto succede nella maggior parte dei casi – sulla fama dell’opera, precipitandola in poco tempo nell’oblio.
Gachot, imbattutosi per puro caso in questo libro, decide di iniziare una sua ricerca personale, scontrandosi presto con la folle personalità dell’artista, che si tiene in contatto con amici e parenti telefonicamente, senza mai incontrare nessuno di persona, facendosi consegnare i piatti dal ristorante preferito direttamente a casa attraverso la gattaiola mentre intrattiene con i colleghi e i nuovi musicisti che apprezza degli scambi epistolari. E infatti la ricerca di Gachot è destinata a rimanere vana, il massimo che può fare è cercare di fare quanta più luce possibile sul personaggio riordinando interviste e frammenti di repertorio, potendo soltanto ipotizzare il motivo del suo isolazionismo forzato. Misantropia, vezzo artistico o “un amore troppo grande per l’umanità” (come suggerisce la vibrante voce narrante di Max Simonischek nell’incipit dell’opera), è Gachot a porsi il problema di svelare la vera natura della persona e della musica di João Gilberto. Com’è ovvio, non ci andrà nemmeno vicino (c’è sempre consapevolezza dell’esito finale, incrinata appena da un filo sottile di speranza in alcuni momenti,) dato che si parla di un fenomeno culturale che fa tutt’uno con i suoi segreti e il suo velarsi nella persona del musicista brasiliano, ma l’esito è un documentario solido e – visto l’argomento – piuttosto originale su una realtà musicale di particolarità unica.
L’atteggiarsi, a livello sia personale sia cinematografico, di Gachot all’inizio cattura l’attenzione dello spettatore, promettendo una successiva elaborazione tra la realtà documentata e una sorta di dimensione teatrale a parte che regge il gioco, e rimane comunque una variante simpatica che accompagna le quasi due ore di un doc bonariamente, volontariamente, inconcludente; una regia evocativa e sufficientemente salda, tra l’ampio uso del riflesso e i movimenti fluidi della mdp, completa il quadro, ma non si può tralasciare il fatto che alcune di queste “promesse” poi non vengono mantenute, poiché più il film si stringe sulla figura di Gilberto, più l’opera di fa conforme alle concezioni classiche, abbandonando i successivi livelli di indagine e rassegnandosi un poco a una traccia standardizzata. L’approccio con cui era iniziata l’avventura di Gachot infatti non rende giustizia al risultato, la poesia del quale scema mano a mano a discapito di una maggiore concretezza. Le interviste diventano così più tranquille e mancano di qualsiasi intervento autoriale, tutto assume un significato in un determinato percorso che stringe enciclopedicamente sul cantautore e la narrazione degli aneddoti diviene il nucleo portante del film.
Where are you, João Gilberto? rimane un documentario ben gestito, che lascia un gusto agrodolce di delusione nella sua climax discendente, ma anche perfettamente capace di raccontare con viva curiosità e la passione del regista una realtà misconosciuta che magari meriterebbe più spazio. Ai posteri l’ardua sentenza, sempre che accettino di non poter mai conoscere davvero João Gilberto, accontentandosi di riuscire a salutarlo, come Gachot.