Homecoming è il terzo capitolo della trilogia Youth, progetto-fiume composito presentato nell’arco di quattro mesi a cavallo trai festival cinematografici estivi, la cui ammissione nel concorso ufficiale veneziano stona in parte con la nota policy concernente il genere documentario della gestione Barbera. Particolare è anche la scelta di mostrare la terza e ultima parte senza nemmeno prendere in considerazione di proporre le due precedenti in una delle sezioni parallele; e se vogliamo notare la presenza fuori concorso del primo atto della saga western Horizon per meglio collocare il secondo (qui in prima internazionale), non si può che evidenziare una stortura organizzativa.

Non che l’esperienza veneziana di Wang Bing si sia rivelata priva di stranezze, a cominciare dal 2016, quando venne premiato per la scrittura di Bitter money, che una sceneggiatura nemmeno l’aveva. È ironico allora che il nostro possa finire a Venezia ciò che ivi aveva cominciato, perché l’intero progetto Youth prende le mosse proprio da Ku qian, e anzi ne rappresenta le versione massimale – e pure un po’ massimalista, ma non si tratta di una novità nel lavoro del documentarista cinese. Le innovazioni tuttavia abbondano, dato che già dal primo capitolo Spring Bing aveva rivoluzionato il suo approccio all’oggetto della ricerca tramite l’adozione del metodo Wiseman, insinuandosi al didentro della realtà da ricostruire fino a diventarne parte organica e invisibile; la rinuncia a uno stile più “herzogiano”, con tutto quello che comporta in fase di montaggio e manipolazione del filmato in generale, scaturisce dalla probabile necessità di affondare in un tema che tocca il cineasta molto da vicino; così vicino da dedicarvi una sorta di secondo Tiexi, con la realtà dell’industria tessile a sostituire quella pesante.

Delle quasi dieci ore di montato complessivo, quella presa in esame è la parte più breve (appena 152′) e conclude il discorso di Hard times, dove si iniziavano a vedere i primi segnali di una presa di coscienza d’insieme e i primi timidi accenni di protesta organizzata. La tenue fiammella di speranza di affrancamento dal capitalismo di stato e dai disumani ritmi di impiego imposti agli abitanti della città di Zhili, una controparte urbana della nave fantasma traveniana in cui la mdp sembra essere l’unica entità viva immersa in un andirivieni zombiesco, in Homecoming si spegne. Il terzo capitolo è quello della fase della sussunzione: durante il Capodanno i luoghi che osservavamo in incessante fibrillazione mentre scandivano il tempo delle vite della massiccia comunità di lavoratori si svuotano e costringono lo spettatore ad ascoltare il silenzio per la prima volta in 600’. Un discorso analogo vale per il vuoto: si vede finalmente quanto siano claustrofobici questi luoghi pullulanti di anime non-morte alle prese coi residui di umanità che vengono loro concessi. Si festeggiano i matrimoni e si celebrano ricorrenze ormai passate in base alle piccole porzioni di libertà perché è il lavoro a codificare le vite di ciascuna delle centinaia di migliaia di uomini, donne e minori schiavizzate dal ritmo del mercato interno.

Questa volta WB cerca di concentrarsi maggiormente su alcuni dei protagonisti, abbandonando l’ossessione di catturare la molteplicità dimensionale dello sfruttamento tramite la prospettiva più panoramica/corale e permettendo per la prima volta al suo racconto di farsi appena personalistico, di incarnarsi nelle facce malinconiche degli sposini Shi e Feng, per esempio; o di far trasparire una precisa tonalità emotiva. Homecoming non può che suscitare sfiducia a ogni frame, poiché si rende evidente che le dure azioni di repressione e carcerazione intimidatoria del 2011 (cfr. Hard times) potrebbero non essere più necessarie, tanto l’educazione al lavoro come totale surrogazione della vita è radicata nelle menti e nei corpi che abitano Youth. Il denaro guadagnato non è nemmeno più un fine per anche solo sognare una vita migliore (accasarsi, emigrare, emanciparsi) ma il senso stesso di un complesso di esistenze sussunte dalla produzione al punto da misurare spontaneamente le loro vite in pezzi di vestiario prodotti, da guardare al lavoro come unica estrinsecazione della dialettica tra la vita e le sue forme.

Rimane in ogni caso complesso comprendere dove finisca il progetto Youth e dove inizi l’autonomia di Homecoming, invero piuttosto scarsa e subordinata all’architettura tematica e storica imbastita nella parte centrale del trittico, così come non è chiaro dove sia voluto andare a parare Bing sovvertendo radicalmente i canoni della sua capacità decostruttiva del paese-mondo che abita. Di Youth ci ricorderemo l’intensa canzone epica dedicata ai sommersi nelle prove generali del MiC25, ci dimenticheremo la monotonia derivante dall’assenza di qualsivoglia approfondimento intellettuale sulla natura del fenomeno capitalista cinese; di Homecoming verrà serbato l’ardimento di rappresentare la morte di ogni speranza in chiave inequivocabile, mentre s’oblierà la foschia del quadro generale mascherata da un sentimentalismo di maniera.