Oskar Alegria aveva sedotto molti con The search for Emak Bakia nel 2013 ma lasciando da parte la carriera cinematografica ne ha abbandonati in numero ancora maggiore. Il ritorno sulla scena è avvenuto l’anno scorso con il primo corto del collettaneo Gure oroitzapenak, formato da dodici episodi brevi ispirati agli scritti di Joseba Sarrionandia per celebrare la notizia dell’estinzione della pena di quest’ultimo di lì a poco.
Alegria, lasciatosi alle spalle diverse esperienze come autore televisivo, doveva allora essere pronto per il suo debutto cinematografico vero e proprio, ma anche questo Zumiriki non può essere considerato un lungometraggio nel vero senso del termine, perché accanto una elaborazione filmica che, pur periferica, non può essere ignorata, v’è la descrizione di un’esperienza in sé, una sorta di esperimento sensoriale più che artistico. Zumiriki è questo anche altre cose, forse troppe, ma prima di tutto è una riflessione sulla memoria.
Chi ha familiarità con cinema e letteratura baschi non può certo stupirsi di questo fatto poiché la tematica è uno dei capisaldi nella visione dell’arte nella macroregione tra Spagna e Francia, ma subentra un altro interrogativo a questo punto, e cioè se o come è possibile aggiungere qualcosa a quanto già espresso. Alegria ci prova partendo dalla domanda “è possibile rivivere lo stesso ricordo due volte?” e riesuma i vecchi filmati in super8 di suo padre per scoprirlo: ne isola elementi e li riprende a suo modo, replicando le imprese registiche del genitore per proporre un’esperienza fuori dal tempo. Parte tutto dall’eponimo zumiriki, che in una delle innumerevoli varianti dialettali dell’euskera significa “isolotto in mezzo al fiume”, poiché il regista non può più filmare quel pezzetto di terra come faceva suo padre adesso che è stato sommerso.
Il regista si costruisce una capanna nella quale abiterà per circa quattro mesi e che userà come materializzazione della memoria, un percorso e un processo che lo porterà a capire se è possibile rivivere lo stesso ricordo più di una volta, eludere il tempo. La risposta è ovviamente no, ma la parte interessante è il gioco narrativo costruito su questa base. Di fatto Alegria costruisce sul suo tentativo in stile walden un film semi-documentario innervato sul making of dello pseudo-film che sta fingendo di fare (che ha come oggetto l’attività artistica e creativa che sta alla base del concetto di memoria e vestigia) e impreziosito dalla radicalizzazione di questa esperienza, che il nostro trasforma forzatamente in veritiera, con esiti contrastanti.
La prima parte del film funziona alla grande, fila via liscia nonostante la complessità dell’intreccio verità/finzione e sfrutta bene le possibilità che si aprono man mano offrendo al regista l’occasione di rivedere il suo progetto originario, di arricchirlo creativamente. Esplorando le mancanze dell’esperienza Alegria è costretto a ripianarle in altro modo, coinvolgendo ancor di più la realtà del luogo e dei suoi ricordi; se non può riavere i dialoghi trai vecchi pastori in riva al fiume (suo padre, suo zio e un loro amico) li ricrea andando a cogliere le ultime ore di vita di quattro pecorai ancor più su sulla montagna; se non può avere l’isolotto d’infanzia se lo ricrea con il legno degli alberi che da esso spuntano. Alegria indaga le mancanze, ricerca gli elementi che non possono essere uguali e li corregge – anche con ironia, vedasi la ricerca della mucca – e il film sta tutto qui, all’inizio.
È quando c’è da fare il passo decisivo che la verve viene a mancare, quando il gioco di incastri avrebbe dovuto dispiegarsi fino a fare tutt’uno con la riflessione generale il regista di Pamplona lo lascia lì, esausto, e si focalizza sul portare alle estreme e più sincere conseguenze questa avventura paradossale da Robinson Crusoe basco, finendo per esaurire presto la spinta del film. L’opera sfocia in toni naïf e perde il filo del discorso nettamente, l’accurata e ironica ricerca verbale (sia in spagnolo che in euskera) con cui elaborava la sua narrazione davanti alla mdp in prima persona diventa frivola una volta che viene privata dello scopo primario (non perdere dettagli a costo di scivolare nella retorica), i filmati notturni delle videocamere poste lungo il perimetro della capanna si succedono trasbordanti fino a perdere di significato, e quel “mettersi in gioco” personalmente, è apprezzabile fintanto che il sé è quello del regista che in quanto punto di vista principale non può essere considerato altro rispetto al film che fa, quando subentra una ricerca del sé così new age da far dubitare delle buone intenzioni iniziali, allora c’è qualcosa che non quadra. A delle ottime premesse e un primo svolgimento di ottima caratura, anche tecnica, per la ricchezza di espedienti, fanno da contrappunto un prosieguo e una conclusione eccessivamente dispersivi, specie per quanto concerne il filmico.
Zumiriki è un film chiaramente interessante per una moltitudine di motivi (idea di partenza, organizzazione del pensiero, architettura dell’aspetto meta-cinematografico) e che rimane tale nonostante gli ultimi quaranta-cinquanta minuti di durata facciano di tutto per obliarne i tratti positivi. La realtà che racconta non incrocia le tematiche culturali basche in relazione alla stessa lingua ma la usa come viatico per accedere a uno strato purtroppo non scandagliato fino in fondo e fermo a uno stadio “materialista” ampiamente superato da opere simili.