In “Fuori controllo” Mel Gibson torna a interrogarsi sulla natura del male

Mel Gibson torna al thriller come attore in “Fuori controllo” di Martin Campbell. Sotto la veste rigorosamente action, tuttavia, si nasconde una nuova indagine dell’attore-autore intorno ai temi che gli sono più cari: la vendetta, il sacrificio, la libertà di scelta e il rapporto tra etica, morale e giustizia.

Quando Emma Craven (Bojana Novakovic) decide di vuotare il sacco con il padre detective (Mel Gibson) circa i loschi traffici della società nella quale lavora come ricercatrice stagista, è già intossicata dal latte al tallio. Quindi, nel momento in cui le sparano, è già condannata a morte dalle radiazioni. Il padre, a sua volta, quando scopre la verità, inizia a manifestare gli stessi sintomi. Parte la gara contro il tempo: ce la farà il detective a trovare e uccidere tutte le persone responsabili dell’omicidio della figlia prima che la signora con la falce se lo porti via? Ray Winstone, stratega che agisce nell’ombra al servizio del governo per far sì che tutto taccia e nulla si sappia, dal canto suo, ha anche lui qualcosa che gli cresce dentro alla testa e non è una sordida coscienza. O meglio: non solo, poichè dopo trent’anni di imbrogli e menzogne, complice la certezza di una fine imminente, il Capitano Jedburgh sembra aver sviluppato qualcosa di simile al senso morale. Infatti cita Diogene di Sinope, che viveva dentro una botte e di notte vagava armato di lanterna alla ricerca di un uomo integro. A coronamento della sua ricerca, Jedburgh trova il detective Craven, determinato a vendicare (in senso biblico) l’assassinio di sua figlia, fino a pagare con la vita.

Partendo da queste osservazioni, possiamo affermare che il vero protagonista di Fuori controllo (Edge of darkness) di Martin Campbell, remake di un serial televisivo di più di vent’anni fa diretto allora dallo stesso Campbell, non è Mel Gibson, bensì la bianca signora priva di naso. I tre protagonisti sono, in maniera diversa, tutti già morti quando li vediamo agire: Craven e la figlia intossicati dal tallio, Jedburgh condannato da un tumore. Anche gli attivisti di Nightflower li vediamo solamente in foto, già cadaveri. Tutto è già successo. Si tratta solo di capire cosa e “fare giustizia” di conseguenza. L’ombra di Heidegger aleggia sul film, quasi sceneggiatore non accreditato accanto ai validi Monahan e Bovell, allorchè Winstone, in risposta alla stolida ironia dei suoi sottoposti circa le condizioni terminali del detective Craven, li raggela con la battuta “siamo tutti terminali”, pronunciata come fosse una constatazione sul clima.

Winstone, che iniziò nel 1979 con Quadrophenia, per poi, in tempi più moderni, approdare alle corti di Scorsese (The Departed, 2006) e Spielberg (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, 2008) è davvero grande nel tratteggiare un personaggio complesso e tragico come Jedburgh: incompiuto, dionisiacamente innamorato della vita ma anche tragicamente consapevole della propria dannazione e della fatuità di tutte le cose, sceglie di morire facendo qualcosa di giusto, consapevole che nessuna redenzione è più possibile.

Il termine “giusto” deve ovviamente essere aggiornato alla posizione biblicamente relativistica di Gibson: “giusto”, in questo caso è assassinare a sangue freddo due suoi collaboratori e un senatore degli Stati Uniti che avevano contribuito all’omicidio di Emma Craven. E, di fatto, è la cosa giusta. Un punto a favore del film è quello di spostare indietro il focus dalla morale all’etica, disciplina che, scevra dall’ingombrante peso del giudizio, studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontico ovvero distinguerli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati. Uccidere Danny Huston, per il detective Craven, alla fine, è un comportamento propriamente etico, pur non potendo essere moralmente giustificato.

La certezza della morte e la sua accettazione, per i tre protagoinisti, diviene quindi motore di scelta: denunciare le nefandezze di Jack Bennett per Emma Craven, vendicare l’omicidio della figlia per Thomas Craven, risparmiare la vita a Craven e eliminare Damian Young e i suoi bravi per il Capitano Jedburgh. Diogene, quella notte, avrebbe trovato non una ma ben tre persone oneste.
Il riferimento più immediato è, in ogni caso, quello alla scuola Pitagorica, nella quale i discepoli, gli iniziati, erano quelli che avevano accettato di essere morti per il mondo esterno; solo allora, potevano avere accesso alla verità. Allo stesso modo Gibson, Novakovic e Winstone divengono consapevoli di sè stessi e del loro destino (la loro moira) solo quando capiscono di non avere un futuro. La disperazione conseguente all’irreparabilità del fato, come nelle tragedie antiche, smuove l’anima verso gli dei, verso la verità e le imprese eroiche.

Leggere Edge of darkness come una tragedia della vendetta (un “revenge movie”, in termini più attuali) e, quindi, del perdono, in questo caso in absentia, lo rende confrontabile con le più recenti fatiche di Mel Gibson regista. La vendetta di Craven, in un certo senso, è anche la vendetta di Zampa di Giaguaro (Apocalypto) e la “nerezza del giorno” di cui parla la bambina appestata (e quindi condanntata a morte) veggente è quel “margine del buio” (edge of darkness) in cui si muovono i personaggi di Fuori controllo: una zona d’ombra, un angolo morto in cui lo sguardo di Dio (qualunque cosa sia) preferisce non avventurarsi, lasciando agli uomini, nella loro natura prima – quella fatta di carne – l’onere di “fare giustizia” attraverso delle scelte di ordine etico. Esattamente come accadeva in The Passion of Christ in cui un uomo veniva ucciso su una croce; la vendetta, in quel caso, fu la Storia, come la conosciamo e come ci è tramandata dalla teologia della croce, e ha come oggetto l’intera umanità.

Fuori controllo non è diretto da Gibson ma la sua mano è percettibile. Non lo è, al contrario, quella di Martin Campbell, regista in passato di un paio di James Bond, un paio di Zorro e un paio di thriller azzeccati (Vertical limit, 2000 e Legge criminale, 1988), oltre a una manciata di prodotti televisivi, tra cui appunto la serie da cui è tratto questo film.

Oltre ai tre protagonisti, sono degni di menzione il già citato Damian Young, viscido politicante; Shawn Roberts, fidanzato ipercinetico di Emma Craven; Caterina Scorsone, un po’ sopra le righe; la piccola Gabrielle Popa, Emma da bambina. Il cattivo di Danny Huston è bidimensionale, come tutti i suoi sottoposti.

La sceneggiatura ha dei buchi e delle incongruenze più (Mel Gibson, bersaglio mobile, continua a rifuguarsi nella propria casa; l’auto che travolge Melissa fa inspiegabilmente inversione dopo il misfatto e torna verso Gibson, che può così uccidere il conducente) o meno (la fuga di Gibson dal laboratorio, decisamente troppo facile) accettabili, dovute anche alla compressione del materiale dalle sei ore della miniserie originale alle quasi due ore del film.

Ottima la musica di Howard Shore, ormai stabilmente orfano di Cronenberg, purtroppo. Fotografia efficace e funzionale di Phil Meheux, già al fianco di Campbell negli Zorro e nei Bond.

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