“LA GUERRA DEI FIORI ROSSI” di Zhang Yuan

Nascere "pecora nera" nella Cina maoista

Ogni regista ha un tema che gli sta particolarmente a cuore, un tema che sente vibrare a tal punto nelle proprie corde da non poter fare a meno di esprimerlo.
Così Woody Allen è solito scandagliare, con la punta affilata del suo humour hyddish, le nevrosi della borghesia contemporanea, Bergman ama dar vita a paesaggi onirici sospesi tra sogno e realtà, e Almodovar sembra fatalmente attratto dai lati più morbosi e patologici dell’esistenza.

Zhang Yuan – regista della cosiddetta “sesta generazione”, emersa all’indomani della strage di piazza Tienamen – ha invece a cuore il tema dell’omologazione tipico dei regimi totalitari. Tema che aveva già affrontato nel suo film d’esordio, Mama (1992), storia di una donna, madre di un ragazzino disabile, che si trova alle prese con una società totalmente incapace di accettare la diversità. Ma anche in Diciassette anni (1999), incentrato sulla figura di una giovane che, liberata dopo diciassette anni di carcere, si trova ad affrontare una società che le è ormai del tutto estranea.
E non è un caso che La guerra dei fiori rossi – settimo lungometraggio del regista cinese – sia ambientato proprio negli anni del Grande Timoniere, quel Mao Zedong che divenne presidente della Repubblica Popolare Cinese nel ’49 e governò il paese nel segno del più intransigente totalitarismo.

Tratto dal romanzo Could be beautiful dell’irriverente Wang Shuo, il film narra la storia del piccolo Fang Qiangqiang: quattro anni, un pessimo carattere e la sconveniente abitudine di fare la pipì nel letto. Assorbiti da un “workaholism” ante-litteram, i genitori lo affidano alle cure di uno dei migliori Istituti per l’infanzia di Pechino: un enorme edificio situato all’interno della Città Proibita, che unisce austerità e sfarzo in un risultato d’insieme dissonante e surreale. Al piccolo monello – che ci fa subito pensare a un Gianburrasca dagli occhi a mandorla – bastano pochi giorni per farsi notare: alle inflessibili regole dell’asilo Qiangqiang risponde infatti con la ribellione, guadagnandosi in men che non si dica l’etichetta di “pecora nera” della classe.
Perché di omologarsi alle regole proprio non ne vuole sapere, il piccolo, insolente Qiangqiang… e come dargli torto, dal momento che il regime imposto dalle insegnanti sembra frutto dei deliri di un folle?
I comportamenti conformi vengono premiati, quelli difformi scoraggiati. Chi trasgredisce o non raggiunge gli obiettivi è punito. Chi sottostà alle regole riceve in premio un fiore di carta rosso che, in mostra su una lavagna con i nomi di tutti i bambini, serve a monitorare il rendimento. Cinque sono i modi per guadagnare fiori rossi: eseguire un bizzarro rituale di vestizione mattutina davanti a tutta la classe, marciare come soldatini al battito di mani della maestra, ubbidire senza fiatare a qualsiasi sua richiesta, imparare a memoria filastrocche interminabili e senza senso e, soprattutto, fare i propri “bisognini” tutti in fila, contemporaneamente. Delle cinque regole il nostro piccolo ribelle non ne rispetterà una ma, per paradosso, proprio quando verrà emarginato dai coetanei e relegato in un angolo a scontare continui castighi, troverà la libertà.

Una libertà fatta di piccoli baci rubati all’innocenza, di oniriche corse a piedi nudi sulla neve e di giochi proibiti. Come a dire che, quando le regole si fanno troppo oppressive, la libertà è possibile solo ai margini del sistema, negli anfratti bui di quel labirinto senza uscita che è ogni società antilibertaria e coercitiva.
Metafora intensa ed elaborata dei rigorismi della Cina maoista, il film colpisce sia per l’accuratezza scenografica – minimalista eppure maniacalmente attenta al dettaglio cromatico – che per la gradevolezza della colonna sonora, affidata a un virtuosistico Carlo Crivelli (Le affinità elettive, fratelli Taviani 1996, La balia, Bellocchio 1999, Un viaggio chiamato amore, Michele Placido 2002)
Coinvolge e conquista anche l’interpretazione dei giovani attori, tra i quali spiccano per simpatia e vivacità Dong Bowen – il monello protagonista, dotato di capacità mimiche fuori dal comune – e per dolcezza e bellezza Ning Yuanyuan, la figlia del regista qui nei panni della migliore amica del protagonista. Unica pecca del film: la lentezza del racconto che, seppur disseminato di momenti topici di rara bellezza (come la scena dell’agguato notturno all’alcova della maestra), soffre di una sostanziale carenza di tensione narrativa, imputabile a un certo manierismo estetico di cui il regista sembra subire il fascino.

La guerra dei fiori rossi
Titolo originale: Kan Shang Qu Hen Mei
Nazione: Cina, Italia
Anno: 2006
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 92′
Regia: Zhang Yuan

Cast: Dong Bowen, Ning Yuanyuan, Chen Manyuan, Zhao Rui, Li Xiaofeng
Produzione: Beijing Century Good-Tidings Cultural Development Ltd.
Distribuzione: Istituto Luce
Data di uscita: Berlino 2006
12 Gennaio 2007 (cinema)