“Perché nell’eccellente “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper non vediamo mai i personaggi andare in bagno o lavarsi le mani come fa la gente nella vita reale? Perché ne “Il pianista” di Polanski il tipo deve fare una vita tanto grama quando è così bravo a suonare? Assolutamente per nessuna ragione. Ogni grande film, senza eccezioni, contiene un importante elemento di ‘no reason’, di arbitrarietà. Perché? Perché la vita stessa è piena di arbitrarietà. Signori e signore, il film che state per vedere è un omaggio al ‘no reason’, il più potente elemento stilistico che ci sia.”

Quentin Dupieux, 2010

KM 9” di Filippo Valsecchi (classe 1996), presentato nella sezione Cortometraggi all’Edera Film Festival 2024, racconta la vita di due ragazzi che per puro caso si trovano fagocitati all’interno di una vicenda che prenderà i colori di un thriller italiano spennellato di “no sense” e ironia.

Una Panda rosso mattone sfreccia su una strada che taglia la Maremma. A guidarla è Cloe, una giovane ragazza che tanto ricorda la Sharon Tate dai capelli arruffati dal vento e i piedi nudi, affiancata da Edo, ragazzo di una mirabolante loquacità che pone strampalate domande alla guidatrice. È da questa assurdità dialogica, a cui fa da sfondo un’incalzante musica anni Ottanta (“Underwater” di Harry Thuman), che la narrazione prende vita, facendo di questo aspetto tematico lo stilema formale su cui si regge tutto il racconto.

A rompere la spensieratezza che accompagna i primi minuti del cortometraggio, è la notizia data dal telegiornale radio in merito alla scomparsa di una ragazza venticinquenne. Un dettaglio sonoro che attiva nello spettatore un senso di inquietudine, apparentemente assente nei protagonisti i quali si lasciano andare a piaceri sessuali fermi ad un semaforo. Hitchcockiano nella scelta di attivare nello spettatore inquietudine, rendendolo muto testimone di ciò che accadrà, il regista fa giungere sulla scena una macchina della polizia che, paradossalmente, sovvertirà l’ordine della storia. Cloe, sorpresa dalla presenza dei poliziotti, in preda alla paura e all’adrenalina, preme fortissimo sull’acceleratore, dando avvio ad un inseguimento che terminerà solo davanti al cartello stradale che indica il “KM 9” – da che cosa? Non ha importanza saperlo -, un dettaglio che diviene il titolo dell’opera, nonostante la sua inutilità nella narrazione della stessa. È nella presenza di questi elementi, di dialoghi paradossali, di figure che invadono la scena per poi scomparire subito dopo, che il thriller prende vita assumendo però delle tinte pulp e “no sense” che conducono lo spettatore alla risata sarcastica più che alla compassione o alla disperazione per ciò che sta vedendo. Un meccanismo caro ai più appassionati frequentatori dei Monty Python, in cui l’assurdo divora la tragedia, o dei film tarantiniani dove all’eccessivo sgorgare di sangue, produce la risata.

Così, anche in “KM 9”, il potenzialmente tragico diventa assurdo grazie ad una rapida costruzione che concatena una situazione fisiologica (Edo orina) a un ritrovamento macabro (corpo tra i rovi) a cui segue una sparatoria, un tentativo di stupro e l’intervento di una vecchia signora che spara ai poliziotti, vendicandosi dell’uccisione del suo cane da parte di questi. In questo caos narrativo, minuziosamente equilibrato, lo spettatore rimane ad osservare un finale aperto che odora di giustizia e follia.