Tie Xi Qu (letteralmente: Distretto a ovest delle rotaie) è un documentario diviso in tre capitoli, e racconta la realtà dell’abbandonato e ormai superfluo assieme di caseggiati e strutture architettoniche senza scopo e senz’anima che è diventato il distretto cinese del titolo, e delle reazioni della comunità d’operai che lì lavorava.
L’imponente durata dell’opera prima del giovane documentarista Wang Bing non ne facilità certo la fruizione, ma nonostante i 551 minuti, il regista non dà mai l’impressione di voler girare un film-fiume alla Lav Diaz, la cui particolarità sta nell’essere totale e auto-sussistente rispetto al cinema stesso. Bing non vuole rappresentare la totalità, bensì la parzialità, l’incompletezza di una vita vissuta solo a metà, perché la vita in Tie Xi Qu è presente tanto quanto la morte, ed è proprio la compresenza di queste due polarità a far nascere quella sensazione di vuoto che è il cuore del film.
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Ruggine, la prima parte, testimonia appunto la decadenza prima e la chiusura poi dell’area di Tie Xi, e di come i lavoratori ora non abbiano più non solo una ragione di vita ma nemmeno la concezione stessa di un’esistenza sensata. Una volta tolto a quegli operai il loro mondo, questi non trovano più una loro dimensione senza i vecchi incarichi, perché quel lavoro rappresentava non tanto ciò che avevano, ma ciò di cui erano privati: la loro libertà era paradossalmente definita attraverso ciò che non potevano fare e proprio attraverso i severi limiti imposti dal distretto. Essi erano macchine di carne che azionavano macchine di ferro, e in quanto tali il loro unico scopo era supplire alla disfatta di quell’area causata dallo statalismo cinese; ora sono uomini e donne, ma non sanno come esserlo, non riescono più a definire la propria esistenza in azioni concrete. Non resta loro che convivere con il nulla, e questo vuoto per Wang Bing è una specie di stato di pre-esistenza, di modo che l’autore realizza questo primo volume (il più lungo, circa 4 ore) caricando le immagini di un senso di disfatta e rassegnazione. Tant’è che non si avvicina mai troppo agli operai, che preferisce riprendere a figura intera, e non è mai invadente, quasi come se volesse restare fuori dallo spazio entro cui l’azione si svolge, per non intervenire direttamente sulla realtà con il mezzo cinematografico: il regista lascia fluire le immagini così come sono, senza eccessive elaborazioni, con pochissimi tagli di montaggio. Il film è stato girato con una telecamera digitale a mano, che ha permesso piani-sequenza molto più lunghi di quelli concessi dai 12 minuti della pellicola tradizionale, ma al contempo limitando le possibilità del regista (qui anche operatore) che può riprendere solo quello che vede direttamente e non può offrire riprese da un punto di vista privilegiato, ad esempio con panoramiche o con combinazioni di visuali.
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La morte vera e propria viene rappresentata dalla seconda parte del documentario, Resti, che è incentrata non più sul distretto, ma sulla parte più giovane della comunità di cui prima si parlava. Si tratta di una nuova generazione che vive per adattarsi: anche questi giovani ora sono privi di punti di riferimento, e la sola cosa che possono fare è trascinare se stessi, totalmente incapaci come sono di formulare un pensiero che non riguardi il presente. Così l’occhio meccanico di Wang Bing si fa più personale, si addentra nelle case, nelle stanze di questi ragazzi e rivolge loro domande dirette, li riprende continuamente, seguendoli o, più frequentemente, restando fermo con inquadrature fisse di svariati minuti che tentano di cogliere una minima variazione nel vuoto delle loro espressioni. La loro quotidianità è vuota, così vuota da trascendere il documentario e divenire una sorta di triste monumento al desiderio di vivere, desiderio che permane ma non sa più esperirsi.
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Tutto ciò sembrerebbe dover necessariamente culminare nel capitolo successivo in una completa disfatta economico-morale, ma la terza parte, Rotaie, ha un che di speranzoso, per via del tono epico-tragico che il film assume grazie al viaggio che un treno compie attraverso l’intero distretto di Tie Xi, scandagliandolo in tutte le sue profondità e nei luoghi che in Ruggine erano rimasti nascosti. Quest’ultima parte di circa 2 ore è più dinamica, i movimenti di macchina influiscono più direttamente sull’immagine, la mdp fissa è meno utilizzata in modo da lasciare spazio alla vitalità del viaggio che quel padre e quel figlio anonimi stanno compiendo. Siamo come testimoni di una rinascita del desiderio di vivere: è anche l’occhio di Wang Bing che prende vita e comunica allo spettatore la sua speranza. Il viaggio del treno è lo stesso che si vede all’inizio, infatti, e questa sorta di struttura ad anello (che poi è sempre stato un elemento tipico dell’epica) sembra voler evidenziare il nichilismo del distretto che, in conflitto con se stesso, dopo aver rovinato l’esistenza di centinaia d’operai, sprofonda nello stesso stato di vuoto e decade su se stesso. Ora il distretto di Tie Xi ha trasceso la sua natura e sembra passare da quello stato di pre-esistenza prima accennato a una nuova vita attraverso la morte, concedendo così la rinascita di ciò che precedentemente ha soppresso.
In conclusione, Tie Xi Qu è un’opera sulla mancanza e sul disfacimento della vita e dell’economia, che attraverso la regia di Wang Bing, che celebra l’immagine come realtà a sé stante e non come rappresentazione di questa, si rivela una realtà incompleta e perennemente tale.