L’ultima seduta di Alex è senza Alex.
Alex è morto durante una esercitazione ad alta quota. E’ stato stroncato da un malore. Lui, il maverick, lo sprezzante pilota è stato beffato in volo.
Serpeggia in Paul il brivido che Alex si sia suicidato e non sia stato colpito da un qualcosa chiamato arresto cardiaco.
Alex era il paziente più affascinante.
Il caso più esemplare, più complesso, più contemporaneo. Era in un colpo solo un uomo interiormente in guerra e un uomo che per passione va e fa la guerra. Un soldato. Il problema dell’uomo, però, si sa, è l’uomo, e Alex pensandosi macchina compì l’errore più grosso: si dimenticò dei suoi sentimenti. Si concentrò sull’immagine che di lui avevano sviluppato i suoi cari, anche grazie alle sue continue indicazioni/dissimulazioni, e questo lo distrusse.
L’ultima puntata di Alex è un dialogo strepitoso tra il padre ferito e il terapeuta in crisi. Un uomo svanito troppo in fretta ha lasciato in loro un tremendo e vibrante senso di inefficacia. Il padre-roccia è incredulo e ripensa all’addestramento che nel corso dell’esistenza ha impartito ad Alex.
“Ho forse ucciso mio figlio?” – sussurra smarrito.
Paul è l’ultimo che l’ha visto in vita ed è colui che ha apposto la firma per far tornare Alex ad alta quota.
Paul ha forse commesso un errore? Non scorcendo lo strisciante senso suicida in un uomo bello, sano, affascinante e sicuro di sè, l’ha condannato a morire?
“Ho molte domande”, esordisce così l’uomo che si sente inferiore a Paul, perché quest’ultimo ha conosciuto un Alex che lui non potrà più conoscere. Ipotizza che sia più semplice parlare con un estraeno paragona il mestiere dell’ascolto terapeutico a quello dell’amore a pagamento.
La loro conversazione è intensa e drammatica in vero stile In Treatment. Questa serie ci ha mostrato un lavoro intimistico sulla regia, sull’uso sommesso della scenografia, su una bolla registica che accoglie al meglio i dolori dei pazienti. Primi piani, dialoghi profondi, movimenti di macchina invisibili e avvolgenti, spazi di manovra dei protagonisti con logiche iconografiche ben precise e volutamente svuotate da ogni eccesso.
Il lavoro maieutico parte da lontano. Paul deve scovare delle somiglianze di famiglia in una famiglia che non è la sua. Questo dettaglio fa impazzire il padre di Alex, che si sfoga con rabbia per il perduto amore del figlio.
” Mi manca il senso di vicinanza. Il senso di appartenenza. Dove troverò ora la sua voce?”.
Aveva già diffidato del senso di intimità che si può creare in un campo neutro, sottolineando, appena varcata la soglia dello studio, una caratteristica scenografica “C’è una porta d’entrata e una d’uscita?” “Sì, per evitare incontri tra pazienti”.
“Esistono cose di noi che non dovremmo affrontare, perchè sopravvivere è dei più forti e non dei più riflessivi”.
“Scavando, scavando lei ha condotto Alex in luoghi in cui non c’era bisogno di scavare”.
Il problema che esplode rabbioso è proprio questo. Il senso di rimozione può essere così forte da riuscire a cancellare il disagio?
Un Top Gun efficiente ed efficace è esente dal disagio esistenziale?
Nel corso della terapia, Alex aveva spesso confidato a Paul che bisogna affidarsi agli strumenti. Se in volo si viene sorpresi da un attacco di vertigine, l’unico modo per sopravviveve è lasciarsi guidare dagli strumenti.
Dopo aver intuito questa importante verità, Alex si affida totalmente a Paul considerandolo il suo strumento, la sua bussola in un momento di temibile capogiro interiore.
Ragionando su questo il padre avanza un’analisi lucidissima sulla differenza tra missione e scopo: la missione è del militare, lo scopo è per se stessi.
Alex ha tenuto sentimenti e obblighi separati, a spese della sua necessità.