Atteso battesimo veneziano di Lou Ye, Lan Xin Da Ju Yuan (Saturday Fiction) è una spy story intricata e lirica che con sano spirito antinipponico riprende un momento storico di particolare ambiguità per la Cina per condurre una macro-riflessione sul confine tra dualità e doppiezza: di cinema e teatro, di dovere e sentimento, di realtà e finzione. In Concorso.
Shangai, 1941. Nella città sotto l’occupazione giapponese, fa il suo ritorno l’attrice Jean Yu – la regina indiscussa del cinema cinese d’autore, Gong Li – per prendere parte allo spettacolo Saturday Fiction, diretto dall’amante Tan Na – Mark Chao. Si dà il caso però che Jean sia anche una spia al servizio degli Alleati, che coordinando le attività di spionaggio dalle loro concessioni sperano di carpire la chiave del cifrario utilizzato dall’esercito imperiale prima che si arrivi al conflitto su larga scala in Asia. Ma nel cuore della donna la guerra è già scoppiata.
Piuttosto che bicromia manichea atta a significare un mondo in bilico tra la vita e la morte come avveniva in Nanking! Nanking! (2007) di Lu Chuan, il bianco e nero di Lan Xin Da Ju Yuan è una raffinatezza estetica che vuole rendere giustizia alla caratura intellettuale dei personaggi, spie che perseguono i propri fini con grande eleganza formale lasciando gli espedienti più meschini – armi da fuoco e minacce – agli aguzzini giapponesi e a quanti si son loro affiliati. Eleganza che impone a Lou una gestione quantomai cauta dei tempi narrativi, con la costruzione di un intreccio a tratti eccessivamente contorto secondo due direttrici: la missione e gli amori. Al centro di entrambe Jean, donna contesa – dal pubblico adorante, dagli spasimanti, dalle potenze straniere – che è figura di Shangai e per traslato di tutta la Cina, di quel gigante mutilato dalle spartizioni territoriali e sedato dai Trattati Ineguali che sarebbe diventato terreno di scontro decisivo nel conflitto di interessi tra Europa e Giappone durante la Guerra del Pacifico.
Costretta a interpretare un ruolo senza soluzione di continuità, Jean sogna il palco del Lyceum Theater dove potrà finalmente vestire panni che non le siano stati imposti, sennonché la dura realtà arriva a precluderle anche quest’ultima possibilità di riscoprire la propria identità. È così raggiunto il punto di rottura, rappresentato dalla deflagrazione della sparatoria – che valorizza ancor più la scelta espressiva del bianco e nero – che infurierà fino alla conclusione, con un cambio di passo radicale rispetto al tono predominante del film: il dissidio giri–ninjō – topos della letteratura giapponese – si rivela insanabile e il fantomatico Saturday Fiction che l’autore ci aveva fatto pregustare nel prologo sfuma con tutte le sue promesse di rivoluzione e ideali operai.
Partendo da un astuto ribaltamento di prospettiva del romanzo Shangai (1931) di Yokomitsu Riichi, che raccontava lo stupro socioeconomico del Paese di Mezzo attraverso gli occhi di due imprenditucoli giapponesi in fuga dalle purghe del Movimento del 30 Maggio, Lou realizza un film che mette a nudo la (im)potenza del filmico dinanzi alla Storia, peccando a sua volta di hybris nel volerlo popolare di tormentati eroi noir che esauriscono troppo presto il proprio ruolo.
Sviste non da poco, ma che non bastano a smorzare il giudizio definitivo: a oggi è lui il candidato più auspicabile per il Leone d’Oro.